De Angelis: «Da Ronaldo all’ignoranza di Zampagna. E in quel viaggio con Imbriani…»
L’allenatore in seconda del Cosenza elegge Pinna («è il mio erede») e ricorda la classe di Strada e di Lentini. «La panchina dei Lupi? certo che la sogno». C’è un’immagine nitida che ogni giorno scorre sul prato del Sanvitino osservando Stefano De Angelis. La memoria riavvolge il nastro e la mente rielabora le corse con
L’allenatore in seconda del Cosenza elegge Pinna («è il mio erede») e ricorda la classe di Strada e di Lentini. «La panchina dei Lupi? certo che la sogno».
C’è un’immagine nitida che ogni giorno scorre sul prato del Sanvitino osservando Stefano De Angelis. La memoria riavvolge il nastro e la mente rielabora le corse con Aurelio e Lentini nella stagione di uno dei Cosenza più belli. Sono passati 15 anni da quando si lottava per la A, quasi venti da quando un terzino che in C aveva dimostrato di valere la categoria superiore approdò al San Vito. Iniziò, come per molti suoi colleghi, una storia che lo avrebbe segnato per sempre. Ha vestito un centinaio di volte la maglia dei Lupi, non andando mai a segno. «Tanti assist però – precisa sorridendo – Il primo anno ne feci 5, il secondo 15: battevo tutti i calci piazzati, corner o punizioni che fossero. Arrivai dietro Pizzi secondo le classifiche ufficiali». E’ tornato con un ruolo diverso dopo aver vestito anche il rossoblù del Genoa. Non a caso è considerato un uomo della società.
Nell’ultima partita disputata in B dal Cosenza al San Vito lei era in campo. Che ricordi ha?
«Fu l’epilogo di un anno abbastanza travagliato. I guai iniziarono con le vicissitudini del presidente Pagliuso e si conclusero con la retrocessione. Eravamo allo sbando e con tanti problemi, faticammo enormemente a tirarci fuori dalla zona calda. Purtroppo andò come tutti sapete».
Stadio vuoto era quel giorno, stadio vuoto è ancora oggi. Si è chiesto perché?
«Vanno fatte due valutazioni. All’epoca c’era un grande scoramento dovuto alla stagione disastrosa. Oggi il boom di internet e delle pay-tv ha fatto sì che ovunque si registrasse un calo delle presenze. Il dato dei botteghini quindi è figlio soltanto dei risultati della squadra. Questi devono essere eccellenti, non basta più neppure ottenerne dei buoni».
Ha passato gran parte della sua carriera tra Cosenza e Avellino. Ha i Lupi nel destino: per un romano niente male.
«A Cosenza sono legato anche da ragioni affettive: la Calabria è la mia seconda casa, ma sono felice di aver lasciato ovunque dei buoni ricordi».
Che affinità ci sono tra l’Irpinia e la Sila e quali invece le divergenze?
«Le affinità riguardano il calore del pubblico. Ad ogni modo, anche ad Avellino dove fino a poco tempo fa continuavano ad esserci 9mila tifosi sugli spalti, la media è calata. Sono entrambe piazze difficili, esigenti, tra le più calde del sud».
Arrivò a Cosenza dopo averlo affrontato col Gualdo, ricorda quella squadra?
«Era uno squadrone, altro che squadra. Ai nostri giorni lotterebbe per le parti alte della B. Margiotta, Tatti, Morrone, i giovani di Sonzogni: gente valida che fece carriera. Ricordo che gareggiò fino alla fine con la Ternana che poi vinse i playoff. Noi eravamo i terzi incomodi in un anno terribile a causa del terremoto che sconvolse tutta l’Umbria».
Faccia un paragone: cosa manca a Caccetta e compagni per raggiungere il livello di chi riconquistò la cadetteria?
«Innanzitutto questo campionato è più competitivo, con antagoniste meglio attrezzate rispetto alle sole Gualdo e Ternana. Sebbene il livello medio del campionato sia più alto, non è comunque il calcio di una volta. Ora la fa da padrone il fisico, all’epoca era la posizione in campo ad essere determinante. Non abbiamo un Margiotta vero e proprio, è Gambino quello che gli si avvicina maggiormente. Morrone-Ranieri? Stefano partì tra lo scetticismo generale e fece ciò che fece. Hanno caratteristiche tecnico-fisiche diverse, forti entrambi, hanno un carattere simile».
Ha giocato con Lentini, Strada e Zampagna. Ci dia un aggettivo per ognuno di loro.
«Lentini era stavagante nel complesso, sia nel modo di vivere che di giocare. Mi ha dato tanto ed è venuto a Cosenza per mettersi in discussione. Si allenava per primo e curava ogni particolare. Strada era il calcio, probabilmente il calciatore più forte con cui abbia mai giocato: aveva otto occhi durante le partite. Zampagna era l’ignoranza calcistica fatta persona. Ragazzo eccezionale che si faceva volere bene da tutti».
Perché De Angelis non è approdato mai in A?
«Perché non ero un calciatore da A, semplice. Ho fatto un’ottima carriera in B dove prima era più difficile sbocciare. Molti calciatori metterebbero la firma per collezionare 400 gare tra i professionisti come me».
Quando con Mutti il Cosenza rimase in vetta per due mesi, pensava già a come arginare Ronaldo? La gente parlava del Fenomeno e di Del Piero sul prato del San Vito…
«Non si pensava a ciò – ride sapendo di mentire – ma solo a coltivare quel sogno. Il mister non ci metteva pressione. Il sogno svanì perché non avevamo una rosa all’altezza delle antagoniste».
Che rapporto ha con i Pagliuso?
«Buono. A loro devo tanto per la mia carriera».
In assoluto, qual è la partita che ricorda con maggiore enfasi?
«L’esordio con l’Atalanta in casa dove perdemmo 1-0 con rete di Dunđerski. Poi una gara vinta contro il Napoli. Segnò Gioacchini, che adesso ha una scuola calcio a Manchester».
Imbriani era suo amico, stavate spesso insieme.
«Il primo viaggio per venire a Cosenza lo feci con lui e ci si ruppe la macchina in autostrada. Fummo compagni di squadra anche a Salerno e se ripenso al dramma che ha vissuto…».
Ha iniziato la sua carriera da allenatore togliendosi delle soddisfazioni in D. Ha conteso la promozione alla Salernitana col Marino: era Davide contro Golia.
«Il presidente fece un buon mercato. Inizialmente il Marino doveva arrivare tra le prime quattro, anche se sapevamo che la Salernitana aveva speso un mare di soldi per stavincere. Quando subentrai in prima squadra ad ottobre, vinsi cinque partite consecutive. Sbancai anche l’Arechi. Peccato che di quei ragazzi nessuno giochi tra i prof».
A Rende cosa non ha funzionato?
«Dopo la vittoria in Eccellenza tramite i playoff, ci cullammo che si potesse puntare su una rosa molto giovane. Pagai in prima persona tale valutazione. A dicembre, infatti, la società intervenne prendendo calciatori di esperienza e categoria superiore».
Accettò la Berretti del Cosenza rifiutando offerte dalla Serie D, perché?
«Perché Cosenza è casa mia. Ripartire da qui era importante, visto che sono attaccato alla maglia e ai colori. Non smetterò mai di ringraziare questa società e il presidente Guarascio per l’opportunità concessami».
Da due stagioni è il vice di Giorgio Roselli, come vive questo ruolo?
«E’ un’esperienza importante, formativa. Mi ritengo cresciuto sia a livello gestionale che a livello tecnico-tattico. Di Roselli ammiro molto il saper gestire determinati calciatori».
Per una partita di Coppa Italia (Cosenza-Reggina del 2004, ndr) la squadra è stata in mano sua. Emozione particolare o normale routine?
«Emozione immensa, altro che routine. Anche se sapevo che sarebbe arrivato il nuovo allenatore, è stato un brivido infinito».
In cuor suo cullava la speranza che le fosse affidata la panchina?
«No, perché dovevo crescere e ne ero consapevole. E’ normale, però, che sono situazioni che ogni tanto capitano: vedi Morrone a Parma oppure Prosperi a Taranto».
Dove può migliorare il Cosenza oggi e quanto servirebbe un De Angelis sull’out sinistro?
«Il Cosenza può solo migliore, innanzitutto a livello di concentrazione. Ogni volta che siamo calati, abbiamo pagato dazio. Il terzino l’abbiamo già: Pinna è il mio erede. Il rinnovo del contratto è stato un gesto molto bello da parte del club. Non solo per l’infortunio, ma perché il ragazzo vale davvero tanto».
Ha avuto tanti allenatori: chi stima di più? E con chi ha litigato?
«A Gualdo c’era Nicolini (ora nello staff di Mandorlini, ndr): persona umana come poche. Rispoli ad Ischia ha creduto tantissimo in me da ragazzino. A livello tattico, invece, a Salerno ho avuto Pioli: mi mise centrale in una difesa a tre, avrei potuto giocare fino a 40 anni. L’unico con cui litigai è Sonetti. A Cagliari avevamo delle nette divergenze».
C’è gente come lei e come Nello Parisi che pare predestinata a sedere un giorno sulla panchina del Cosenza. Ci si immagina?
«Direi una sciocchezza se dicessi di non sognarla: metto il Cosenza davanti a tutte le società. Ora è importante che io continui a crescere come allenatore, in futuro chissà cosa succederà. Mi piace, però, chiudere gli occhi e pensare. Non vi dico a cosa però». (Antonio Clausi)