Condanna definitiva per l’ex boss degli “zingari” di Cosenza
Sono state depositate due giorni fa le motivazioni della condanna, ormai definitiva, di Francesco Bevilacqua, meglio conosciuto come “Franchino ‘i Mafarda”, ex boss degli “zingari” di Cosenza, imputato nel processo “Ultimo Assalto”, l’inchiesta della Dda di Catanzaro che fece luce sugli assalti ai portavalori in provincia di Cosenza e non solo. In primo grado, il
Sono state depositate due giorni fa le motivazioni della condanna, ormai definitiva, di Francesco Bevilacqua, meglio conosciuto come “Franchino ‘i Mafarda”, ex boss degli “zingari” di Cosenza, imputato nel processo “Ultimo Assalto”, l’inchiesta della Dda di Catanzaro che fece luce sugli assalti ai portavalori in provincia di Cosenza e non solo.
In primo grado, il processo tenutosi davanti al tribunale collegiale di Cosenza non finì bene per il collaboratore di giustizia che subì una condanna a 5 anni di carcere senza il riconoscimento dell’articolo sette per una tentata rapina che secondo l’accusa avrebbe dovuto agevolare le “casse” della presunta cosca degli “zingari” di via Popilia.
Gli avvocati Manfredo Fiormonti del foro di Latina e l’avvocato Enrico Tucci del foro di Cosenza presentarono ricorso in Appello. In quel caso la Corte di Catanzaro rideterminò la pena a Bevilacqua, condannandolo a 3 anni e 9 mesi di carcere ma senza il vincolo della collaborazione con la giustizia.
Il 16 marzo scorso la difesa del pentito cosentino si è presentata davanti alla sesta sezione penale della Suprema Corte, la quale ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato per conto di “Franchino ‘i Mafarda”.
Gli ermellini hanno scritto che «nella sentenza impugnata si precisa, infatti, come già nella sentenza di primo grado, con decisione non impugnata sul punto, fosse stata esclusa la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 7 D.L. n. 152 del 1991, conv. in legge n. 203 del 1991 e, pertanto, non fosse concedibile la circostanza attenuante ad effetto speciale richiesta. 7.
Lo stesso tenore letterale della disposizione invocata dal ricorrente, infatti, prevede che la predetta circostanza attenuante si applichi “per i delitti di cui all’articolo 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso”».
Sia il collegio presieduto dal presidente Enrico Di Dedda sia quello composto dalla Corte d’Appello di Catanzaro, scrive la Cassazione, «correttamente i giudici di merito non hanno ritenuto applicabile tale attenuante, atteso che i delitti ritenuti sussistenti non sono stati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso». (Antonio Alizzi)