giovedì,Marzo 28 2024

«Piacere, mi chiamo Kevin. Kevin Marulla»

– di Antonio Clausi Kevin Marulla si racconta come mai prima d’ora. L’infanzia da “figlio di”, l’università messa da parte e l’amore ritrovato, l’omosessualità nel calcio e il tema dei migranti. «Il nome di mio padre ha forse influito nella scelta iniziale, ma nel calcio senza professionalità ti mangiano. Voglio arrivare nel grande calcio e lo

«Piacere, mi chiamo Kevin. Kevin Marulla»

– di Antonio Clausi
Kevin Marulla si racconta come mai prima d’ora. L’infanzia da “figlio di”, l’università messa da parte e l’amore ritrovato, l’omosessualità nel calcio e il tema dei migranti. «Il nome di mio padre ha forse influito nella scelta iniziale, ma nel calcio senza professionalità ti mangiano. Voglio arrivare nel grande calcio e lo farò».  

I ringraziamenti pubblici li ha già fatti. Guarascio, Trinchera, Braglia, la squadra, i ragazzi dello Store, i medici, i magazzinieri e tutti coloro che ruotano intorno all’universo Cosenza hanno avuto il meritato riconoscimento da parte di Kevin Marulla. Sorride al pensiero di dover realizzare un’intervista, sa però che non sarà banale perché è lui che vuole così. L’argomento calcio è sfiorato, accennato appena: si correrebbe il rischio di cadere in una facile retorica discutendo del padre. Di pallone, del resto, ne parla ogni giorno. E’ di se stesso che non ha mai dissertato davanti alle telecamere ed è esattamente quel profilo che salta fuori.

La gente lo chiama Kevin, lo chiama per nome, perché viene spontaneo cercare la confidenza con il figlio del grande Gigi. Ha iniziato da factotum del club quando l’organizzazione societaria era una chimera, ma per i trascorsi resta il punto di riferimento dei calciatori e il trait d’union tra la proprietà e lo spogliatoio. C’è una cosa che molti non sanno: fece parte della redazione di CosenzaChannel.it qualche anno fa per raccontare le gare del torneo Acsi, un campionato seguito come pochi in città. Mandava i pezzi sempre alle due di notte trovando scuse strampalate per l’ingiustificabile ritardo…

Spesso si pensa ai figli d’arte come privilegiati. Marulla, lei invece ha (o ha avuto) dei complessi?
«Da piccolo. E’ stato brutto perché con il mio vero nome sono stato chiamato poche volte. Ero sempre il “figlio di” anche quando mi si presentava ad un nuovo amico. Ci rimanevo male, elaboravo che nella vita avrei dovuto fare qualcosa in più per avere indipendenza e una mia identità. Ci sono stati dei periodi non facili e soffrivo. La gente crede che io abbia trovato porte aperte, mentre ne ho trovate molte chiuse».

E’ vero che il suo grande sogno era di fare il calciatore?
«Ho odiato il calcio fino a 7-8 anni perché mi portava via mio padre nei week-end. Per inerzia, come tutti i bambini, ho iniziato a giocare anche io sognando di poter esordire tra i professionisti. A parte le discutibili qualità tecniche, sarebbe stato difficile riuscirvi perché appena mettevo piede in campo si sprecavano i commenti e i paragoni cattivi. Quasi come se la gente fosse invidiosa che provassi solo a ripercorrere la carriere di papà».

Perché non ha mai pensato di andare fino in fondo con l’università?
«Io ho frequentato la facoltà di Scienze Politiche sostenendo quasi tutti gli esami del primo anno. Poi un problema di salute mi ha tenuto fermo per diversi mesi. Superato il momento, mio padre mi chiese di gestire la scuola calcio con lui: vidi quella proposta come un treno che passava e salii a bordo del convoglio. L’università è qualcosa che voglio finire, me lo sono ripromesso».

Ha una sorella e una madre onnipresenti, le ha mai deluse?
«Deluse no. E’ una parola pesante per la quale bisogna arrivare a fare cose che non mi appartengono. Il mio timore è trascurarle a causa del mio lavoro. A volte dovrei fermarmi e pensare che, dopo ciò che mi è capitato, le presenze non sono affatto scontate».

Quando le hanno detto di essere orgogliose di lei?
«Ultimamente – sorride – Negli ultimi tempi sono diventato il loro punto di riferimento, glielo leggo negli occhi. All’inizio, rimasti soli, non era così, mentre ora capisco che sanno di potersi poggiare su di me. Ciò mi rende fiero e mi fa sentire importante per loro. Più che dirmi “sono orgoglioso” di te, sono le sensazioni che mi emozionano».

E’ la domanda più scontata dell’intervista, ma devo porgliela: nell’ambiente che frequenta vive col peso del cognome che porta?
«La medaglia ha due facce. In qualsiasi parte d’Italia tocco con mano quanta stima esista verso mio padre ed io mi sforzo di trasmettere a chiunque un concetto a me molto caro: dal punto di vista umano, in un ruolo diverso, sto portando avanti ciò che ha seminato. C’è però chi, riferendosi ad una paventata amicizia con lui, cerca di trarre vantaggio dalla mia persona. Per me è qualcosa di inconcepibile».

Quanto crede che abbia influito l’essere il figlio di Gigi nella sua vita professionale?
«Ha influito in quella che può essere stata la chiamata iniziale. Avrebbe poi influito negativamente, però, qualora avessi dimostrato di non essere all’altezza dei compiti assegnatimi».

Cosa fa per mostrarsi semplicemente Kevin Marulla?
«Non ho mai avuto una tattica, mi sono sempre comportato in maniera naturale. Ero avvantaggiato perché, per carattere, raramente ho chiesto consigli e spesso sono stato indipendente. Ho ragionato con la mia testa, tanto che alla scuola calcio litigavo con mio padre in modo molto acceso su come gestirla. Mi comporto come viene seguendo la mia indole e la gente sa che al lavoro mi dimentico completamente del mio cognome».

Ha un orientamento politico?
«Seguo ciò che succede nel paese e per rispondere mi rifaccio a quanto studiato a scuola. Sui libri si parlava di personaggi che con idee diverse, condannabili o apprezzabili, le perseguivano con fervore a discapito dei propri interessi. Adesso si fa fatica a sposare una linea, anche perché il salto della quaglia in Parlamento è all’ordine del giorno».

Lavora in un club attento al sociale. E’ d’accordo con la presa di posizione della Curva sui migranti? Gli ultrà hanno srotolato uno striscione chiedendo di aprire i porti e di non precludere il futuro a nessuno.
«Per me è giusto che la gente con buoni propositi possa avere l’opportunità di svilupparli in altri paesi. Queste persone sono viste come pepite d’oro dagli scafisti, ma capita anche sbarchino dei malintenzionati. Sarebbero tuttavia da condannare per i loro reati e non per la loro provenienza geografica».

Ha 30 anni, quante storie serie ha avuto?
«Ne ho avute due. La mia prima ragazza fu di Cosenza, la seconda no».

Da quando lavora nel Cosenza, sia sincero, ha riscontrato più interesse delle donne nei suoi confronti?
«Sì, questo è innegabile. La visibilità del nostro mondo scaturisce anche questo effetto».

In un post sul suo profilo Facebook ha lasciato intendere di aver trovato una persona speciale…
«Vero. Mi lego alla domanda di prima, perché proprio in virtù di ciò sono riuscito a scorgere bene in lei una semplicità e una purezza d’animo non più comuni. Il mondo del calcio non c’entra nulla e, provate determinate sensazioni, ho capito che in ballo c’era soltanto Kevin e non il team manager del Cosenza».

Negli spogliatoi esiste l’omofobia? Perché un calciatore gay dovrebbe avere timore di esprimere liberamente la sua sessualità?
«Il calcio è ancora un mondo molto maschilista e capisco la reticenza di alcuni calciatori a mostrarsi per quello che sono, vale a dire persone normalissime. L’omofobia è una piaga da combattere con la cultura e mi auguro che i miei figli possano crescere in un mondo sempre più paritario».

Kevin Marulla è scaramantico?
«Non credo nel malocchio, però (lo ammetto) amo ripetere alcuni gesti ciclicamente. Nella vita non sono scaramantico, ma il calcio ti porta ad esserlo».

marulla e castaldo

Una sliding door della sua vita è stata a giugno scorso. Se Zamparini avesse scelto Valoti come ds, lei avrebbe potuto ricevere un’offerta dalla Sicilia. All’epoca sarebbe stato un salto di qualità?
«Io sono un professionista ed ho scelto un mestiere che è diventato quello della mia vita. La parte affettiva giocherà sempre un ruolo importante che mi farà un giorno allontanare da Cosenza solo per una grande occasione. Non so se quella di Palermo lo sarebbe stata, ma il mio obiettivo è arrivare nel grande calcio. Sarebbe fantastico, chiaramente, farlo con i rossoblù».

Quali amicizie ha perso dopo la morte di suo padre?
«Quando papà venne meno ho constatato l’affetto di chi era realmente legato a lui e chi no. La vita però è incredibile: persone che ritenevi amiche si sono rivelate false e opportuniste, altre sono state una piacevolissima sorpresa. L’esempio lampante è Luca Pagliuso che non mi ha lasciato solo un momento: a lui va una menzione particolare».

Perché il Marca non l’ha vista di colpo presente come un tempo?
«Io e la mia famiglia siamo ancora soci alla pari con Andrea Cariola e Vincenzo Cosa. L’impegno quotidiano è venuto meno per un modo differente di intendere la gestione della scuola calcio. Non dico che sia corretto il mio, dico soltanto che la nostra visione è diversa dalla loro. Soffro nel non poter dare il contributo che vorrei, ma per il momento e per questi motivi è giusto che mi concentri sulla mia carriera calcistica».

Di lei si racconta che usi grande professionalità nei rapporti interpersonali per dare forza e sostegno a se stesso. E’ una fotografia esatta o sbiadita questa che le è stata scattata?
«Dismessi i panni di tesserato del Cosenza Calcio, sono l’opposto di come appaio sul lavoro. In privato sono distratto, disordinato, pronto alla leggerezza e allo scherzo. Il fatto è che, avendo frequentato questi ambienti fin da piccolo, so bene che la professionalità è tutto. Non sono un tipo cazzuto, ma con i miei modi riesco ad influire sulla corretta riuscita collettiva. L’atteggiamento professionale all’esterno spesso mi ha attirato antipatie perché dire no è sgradevole, ma nel calcio è fondamentale».

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