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Cosenza, quando il carcere è più sicuro della latitanza. Parola di pentito…

Nel 2014 un pentito di Cosenza si allontana dal gruppo di appartenenza e teme che qualcuno possa ucciderlo. Così si fa arrestare. Qual è il posto più sicuro per un mafioso? Un bunker o un appartamento in una zona che dia poco nell’occhio. E’ la storia criminale italiana, e non solo, che ci insegna come

Cosenza, quando il carcere è più sicuro della latitanza. Parola di pentito…

Nel 2014 un pentito di Cosenza si allontana dal gruppo di appartenenza e teme che qualcuno possa ucciderlo. Così si fa arrestare.

Qual è il posto più sicuro per un mafioso? Un bunker o un appartamento in una zona che dia poco nell’occhio. E’ la storia criminale italiana, e non solo, che ci insegna come ragionano i boss di Cosa Nostra, della ‘ndrangheta e della Camorra. Ma ci sono casi, invece, in cui il luogo più adatto per evitare di essere ucciso è il carcere. Così qualcuno, avendo la possibilità di darsi alla latitanza, preferisce farsi catturare.

Non è pura fantasia, ma semplicemente il racconto del collaboratore di giustizia Luciano Impieri, da qualche anno “al servizio” della Dda di Catanzaro per riferire di dinamiche criminali e reati commessi da lui e da altri nel corso degli anni precedenti. Di recente, ha contribuito a chiarire, secondo il gip di Catanzaro, i fatti dell’omicidio di Giuseppe Ruffolo, come poco tempo fa risultavano agli atti le sue propalazioni per il tentato omicidio De Rose.

La “Nuova Famiglia” di Cosenza

Quello che emerge dai verbali resi dinanzi alle forze dell’ordine e ai magistrati della Dda di Catanzaro sono episodi che, sebbene in alcuni casi non sfociano in notizie di reato, aiutano a comprendere gli equilibri mafiosi dalla morte di Michele Bruni “Bella bella” in poi. Senza dimenticare il delitto di Luca Bruni, fratello del boss scomparso per una grave malattia. E ai pm antimafia spiega perché nel novembre del 2014, la polizia di Cosenza lo trova in casa la notte del blitz contro la cosca “Rango-zingari”.

Per capire bene cosa successe cinque anni fa, bisogna ritornare indietro, precisamente al processo “Nuova Famiglia”, conclusosi nel mese di aprile in Cassazione con la condanna di numerosi soggetti partecipi dell’associazione mafiosa guidata all’epoca da Maurizio Rango e Franco Bruzzese, altro pentito di Cosenza. E come in tutti i clan che si rispettano, i capi cercano sempre di carpire i movimenti della polizia giudiziaria per anticiparne le mosse, o come nel caso degli arresti, di darsi alla latitanza, continuando a gestire gli affari illeciti nell’ombra. E’ il caso, ad esempio, di Matteo Messina Denaro che da oltre 25 anni è “uccel di bosco”.

Carcere più sicuro della latitanza

Nel caso di Luciano Impieri, la situazione era diversa. In un altro procedimento penale, successivo alla cattura degli esponenti del clan degli “zingari” di Cosenza, la Dda di Catanzaro aveva contestato a due ex membri delle forze dell’ordine il fatto di aver rivelato notizie coperte dal segreto istruttorio a Rango e ai suoi amici. Le due “talpe”, Perticari e Ciciarello, oltre al dipendente della polizia stradale, Bertelli, avrebbero aiutato quei soggetti. Chi, come l’ex carabiniere, dicendo che all’interno dell’abitazione di Rango fosse stata nascosta una cimice, chi come l’ex componente della Squadra Mobile, rivelando l’imminente blitz della Dda, all’epoca coordinata dal magistrato, ora in pensione, Vincenzo Lombardo. O come, “l’amico” di Adolfo Foggetti, che indicava le zone in cui erano predisposti i posti di blocco.

  • RANGO-ZINGARI | La Cassazione: condanne confermate [TABELLA]

Succede allora che pochi giorni prima della firma del gip Giuseppe Perri, che dava il via all’operazione “Rango-zingari”, alcuni appartenenti al clan sono a conoscenza che a breve carabinieri e polizia busseranno alla loro porta per far scattare le manette. Il pentito Luciano Impieri indica Antonio Abbruzzese, detto “Banana” e Roberto Sottile e aggiunge che in quel momento era “fuoriuscito” dalla cosca, così come aveva fatto Daniele Lamanna, dopo una riunione che si tenne all’ultimo lotto di via Popilia e temeva di perdere la vita.

Era preoccupato, infatti, che andando insieme agli altri due, poi effettivamente irreperibili per un paio di giorni, qualcuno lo avrebbe fatto sparire. Decide, quindi, di farsi arrestare, salvandosi la vita. E ai magistrati espone alcuni dettagli. Chi all’epoca non si fece trovare nelle rispettive abitazioni, sarebbe andato a prendersi i soldi delle estorsioni e della droga per nasconderli. Pensieri e parole di Luciano Impieri, pentito di Cosenza, che all’ufficio antimafia di Catanzaro pare abbia illustrato eventi delittuosi avvenuti sotto la sua regia. (Antonio Alizzi)

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