Come Calboni a Courmayeur
Né esonero, né dimissioni. E un mercato incapace di risolvere i problemi della squadra. In estrema sintesi, mi bastano quattordici parole esatte per riassumere la settimana seguita alla sconfitta di Salerno. Parto dalla prima parte, quella che riguarda Piero Braglia. Resto convinto che sia stato un errore non procedere in una delle due direzioni. Per
Né esonero, né dimissioni. E un mercato incapace di risolvere i problemi della squadra. In estrema sintesi, mi bastano quattordici parole esatte per riassumere la settimana seguita alla sconfitta di Salerno.
Parto dalla prima parte, quella che riguarda Piero Braglia. Resto convinto che sia stato un errore non procedere in una delle due direzioni. Per lui e per noi. Dopo il 2-1 dell’Arechi sono circolati nomi di possibili sostituti (Longo e Bisoli su tutti), prima che la società (su impulso di Trinchera) facesse retromarcia e confermasse la fiducia (a tempo?) al tecnico toscano. Insomma, la faccenda è stata gestita (al solito) male. Quale sostegno può ricevere in uno spogliatoio un allenatore sospeso sulla graticola per 48 ore?
Non so davvero cosa abbia trattenuto Braglia dalle dimissioni. ‘A pila, diranno quelli convinti di saperne più di tutti, l’attaccamento alla poltrona. Dimenticando che quattro mesi di stipendio (tanto manca alla scadenza naturale del suo contratto) cambiano davvero poco nella vita e nel conto in banca di un uomo di 65 anni, e molto invece nella sua reputazione personale – e quindi, a non dimettersi, Braglia sta dimostrando ancora una volta di avere un coraggio oltre ogni ragionevole considerazione di se stesso. Chapeau.
Il punto è che, dopo la sua conferma, era doveroso attendersi un mercato in linea con quella “asticella” che il presidente Guarascio sosteneva di voler alzare già nell’estate scorsa. Ripeto: non servivano rivoluzioni. C’erano tuttavia giocatori scontenti (Pierini) o che avevano reso meno del previsto (Trovato, Greco) e ruoli precisi da potenziare (terzino destro, stopper e regista). E, invece, dopo l’arrivo di Asencio al posto di Litteri, è successo davvero poco. Pierini è rimasto a Cosenza, con l’intima convinzione di meritare chissà quali palcoscenici invece di cominciare a conquistare quello che ha a disposizione; Trovato e Greco sono stati ceduti senza rimpianti; a Corsi e Bittante, sulla fascia destra, si è aggiunto Casasola, un buon elemento ma fermo da mesi; a centrocampo, si è scommesso su due giovani, Prezioso e Bahlouli, quest’ultimo con caratteristiche più offensive.
A questo punto, sono costretto a fare un inciso. Non so voi, ma io a Cosenza “fenomeni” non solo non me ne aspettavo neanche stavolta, è che proprio non ne voglio. Leggo spesso sui social giovani e meno giovani stracciarsi le vesti al ricordo dell’era Pagliuso e di quando stelle come Lentini e Strada venivano convinte a indossare la maglia rossoblù. Il tempo che passa addolcisce i ricordi. Bene, io ho compiuto da poco 38 anni e credo che ci vorrebbe una grossa “operazione verità” su quel periodo. Io quegli anni me li ricordo bene, ed erano anni difficili. Anni in cui i migliori elementi, i più promettenti, erano spesso ceduti a cifre importanti (Negri e Lucarelli, per esempio) che non erano mai reinvestite per intero. Anni in cui, dopo le spese pazze dei primi anni Novanta, è mancata continuamente la verità sui conti societari. Anni – il decennio della presidenza Pagliuso va grossomodo dal 1993 al 2003 – in cui il Cosenza ha ottenuto: sei salvezze (tre delle quali, con Silipo, Sonzogni e De Rosa, all’ultima giornata o giù di lì), due penose retrocessioni (De Biasi e Sala), una meravigliosa cavalcata che ci riportò in B. Una volta sola (ripeto: una volta sola) sfiorò la serie A, con Bortolo Mutti.
Tuttavia, se c’era una cosa che a me piaceva davvero di quegli anni, non era vedere arrivare i top player, anche perché molti (Muro, Storgato, Maiellaro) furono alla resa dei conti dei grossi flop – e voi credete davvero che Ardemagni inciderà a Frosinone, dopo non averlo mai fatto ad Ascoli? La cosa bella degli anni Novanta, per chi c’era, era vedere arrivare Biagioni coi capelli corti della naja e seguire la sua esplosione gara dopo gara. Era vedere Beppe Compagno sbagliare al 90° il gol nello spareggio con la Salernitana e, quindi, vedergliene fare 6 l’anno successivo. Accogliere Zampagna al grido di sulu Pagliuso ci guadagna e, invece, stropicciarsi gli occhi per una sua rovesciata. E poi guardare Giovanni Bia con la maglia dell’Inter in Coppa Uefa o Venturin in Torino-Real Madrid e dire Chissi erano nuastri ai ragazzi del nord in vacanza sul Tirreno cosentino.
La verità è che il calcio a Cosenza è imploso proprio quando si è cominciato a pensare che il grande sogno, la serie A, sarebbe arrivato attraverso calciatori affermati (Logarzo, Mazzoli, Micillo, Srnicek, Marco Aurelio, Casale) e si è trascurata l’idea di scommettere sui giovani emergenti “pizzicati” in giro per l’Italia – fatevi raccontare da Fausto Silipo, per esempio, come arrivò a David Balleri. Pur non conoscendo ancora il valore sul campo di Prezioso, è questo il mercato che avrei voluto vedere io già in estate. E ripeto: in estate. Non ora. Ora, con il Cosenza al terzultimo posto, servivano innesti pronti e collaudati. Magari scelti da un altro tecnico o, se la società ne ha davvero fiducia, da Braglia. Invece abbiamo assistito all’ennesima “novella dello stento”.
Il mercato di gennaio è difficilissimo. Trapani ed Empoli hanno fatto vere e proprie rivoluzioni, e sulla carta hanno organici formidabili, ma non so se riusciranno a trasformare queste rose in squadre vere. Quel che è certo è che il mercato di Trinchera è stato condotto senza obiettivi chiari (ed è grave) e soprattutto senza “piani B” (ed è stato una condanna). Non puoi restare appeso alla scelta del Livorno se cedere o no Di Gennaro, fino all’ultimo giorno, senza avere alternative. Non puoi aspettare che le occasioni piovano dal cielo. E quindi, forse, non è Cosenza a non avere appeal – lo scrissi già mesi fa – ma è il modo in cui è stato condotto nelle ultime sessioni il mercato a non essere appetibile.
In fondo, quello che si dovrebbe dire alla gente è semplice: «Bastano due vittorie consecutive e vi ritrovate a giocare in uno stadio da 10mila persone. Mica Chiavari, con rispetto parlando. Se arrivate in zona playoff, diventano 20mila. Una bolgia che a Pordenone non vedrete mai nemmeno in A. E noi in zona playoff ci vogliamo andare davvero. Negli anni Novanta, a Cosenza è esplosa gente come Statuto e Margiotta; ora abbiamo rilanciato Tutino e Okereke, e trasformato Dermaku in un difensore pronto per la serie A (tutte, lo sottolineo, operazioni targate Trinchera, ndr). Sì, non siamo la riviera romagnola, ma qui se vinci diventi dio, ed è una sensazione che, se sei un calciatore e non uno sciampagnino, te la porti dietro per tutta la vita». E, se invece sei uno sciampagnino, aggiungo, stai lontano da qui.
Chi invece a inizio giornata corteggia Balic e poi si rifugia in un classe 2000 che con la Primavera della Sampdoria ha totalizzato 10 presenze, ha la stessa credibilità di un geometra Calboni che millanta relazioni altolocate a Courmayeur e, poi, per imbroccare deve rifugiarsi all’Ippopotamo (tanto pagano Fantozzi e Filini).
È difficile prevedere cosa accadrà da ora in avanti. E molto dipende da lunedì sera all’Adriatico. A dicembre scrissi che questa squadra sarebbe stata capace di tutto, nel bene e nel male. Penso che un paio di pedine azzeccate avrebbero aiutato anche a sanare qualche frattura (e un paio di comportamenti poco professionali) all’interno dello spogliatoio. A dicembre ero convinto che la percentuale “nel bene” fosse ancora al 60% delle probabilità. Oggi non ci scommetterei più del 40%.