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Carcere e Covid-19, il Governo sceglie il paradosso

Potranno lasciare il carcere e passare agli arresti domiciliari tutti i detenuti con pena residua inferiore ai 18 mesi, purché muniti di braccialetto elettronico. Ma praticamente nessuno di loro potrà avere un braccialetto elettronico. Né le istituzioni spenderanno un solo centesimo per l’acquisto di braccialetti elettronici. Sembra quasi un passo di Comma 22, l’immortale romanzo

Carcere e Covid-19, il Governo sceglie il paradosso

Potranno lasciare il carcere e passare agli arresti domiciliari tutti i detenuti con pena residua inferiore ai 18 mesi, purché muniti di braccialetto elettronico. Ma praticamente nessuno di loro potrà avere un braccialetto elettronico. Né le istituzioni spenderanno un solo centesimo per l’acquisto di braccialetti elettronici. Sembra quasi un passo di Comma 22, l’immortale romanzo antimilitarista di Joseph Heller portato sul grande schermo da Mike Nichols nel 1970 e divenuto poi una serie Tv diretta e interpretata da George Clooney che Sky ha trasmesso nei mesi scorsi. Invece è quello che ha stabilito il governo nazionale per far fronte ai rischi connessi alla diffusione del coronavirus negli istituti penitenziari.

Domiciliari sulla carta, carcere nella realtà

L’Osservatorio Carcere della Camera penale di Cosenza ha inviato alle autorità un documento che prova a spiegare meglio cosa questo comporti, nella speranza di un dietrofront dopo la paradossale decisione sui braccialetti. Sono 2600 quelli disponibili per tutto il Paese fino al 15 maggio e nel Decreto Legge n. 18 del 17 marzo l’Esecutivo ha indicato che, a riguardo, sono da escludersi nuovi e maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Né si potranno utilizzare i 12mila dispositivi elettronici che lo Stato avrebbe dovuto mettere in servizio già dall’ottobre del 2018, a causa dei ritardi del Ministero dell’Interno nel nominare una commissione di collaudo a fornitura ottenuta. Questo implica che gli unici a poter andare agli arresti domiciliari saranno in realtà i detenuti con meno di sei mesi da scontare ancora in cella, perché per loro non è richiesto l’utilizzo del sistema di controllo a distanza.

Quelli che ne hanno ancora tra i 7 e i 18, invece, pur avendone diritto potranno solo sperare di rientrare tra i 2600 fortunati. Speranza flebilissima, da condividere con tutti i detenuti ancora in attesa di giudizioinnocenti, fino a prova contraria – attualmente in custodia cautelare nei penitenziari e non ai domiciliari proprio per la carenza di braccialetti. Lo stesso vale per gli stranieri. Sono più o meno un quinto dei quasi 61mila individui oggi in cella a fronte dei circa 50mila che le carceri italiane potrebbero ospitare. E spesso sono in galera solo perché privi di un domicilio idoneo all’applicazione di misure alternative.
La conseguenza è che gli avvocati difensori invieranno un’ondata di istanze ai magistrati di sorveglianza e questi, per la carenza dei dispositivi, le respingeranno. Tutto con spreco di risorse umane ed economiche a carico dello stesso Stato. E nessuna tutela del diritto alla salute di migliaia di persone.

La bomba esplode? Rischiano tutti i cittadini

La questione a molti potrebbe sembrare di poco conto. Non c’è quasi nessun italiano che, con le restrizioni imposte dal Consiglio dei ministri, non si senta in cella, nonostante le palesi differenze tra le mura di un penitenziario e quelle di un appartamento. C’è chi pensa che la vita dietro le sbarre, anzi, sia più sicura di quella del cittadino medio in questa fase d’emergenza. Ma non è così. E un’analisi più approfondita del problema può far comprendere come l’eventuale diffusione del contagio, anche solo in un carcere, sia una potenziale bomba. E che, se questa esplodesse, potrebbe far saltare in aria il sistema sanitario, con danni irreparabili per tutta la popolazione.

Il blocco dei colloqui (se non telefonici) e delle attività ludiche e didattiche imposto dall’epidemia, unito alla paura del Covid-19, nelle scorse settimane ha già provocato rivolte ed evasioni. Ma i contatti tra chi è ancora rinchiuso in celle luride e sovraffollate – dov’è impossibile mantenere il metro di distanza di sicurezza previsto dalla legge – e chi dal carcere entra ed esce (guardie, avvocati, magistrati, personale medico e paramedico) ovviamente continuano. E questo comporta rischi per tutta la popolazione, non solo per i reclusi.

Basterebbe un singolo contagio in un carcere, scrive l’Osservatorio, per dare il via a «un’epidemia indomabile, che non rimarrebbe confinata all’interno delle mura della struttura». Gli effetti sul sistema sanitario locale sarebbero «inimmaginabili se anche solo un terzo della popolazione carceraria di un unico istituto penitenziario venisse, di colpo, infettato».
Solo nella città di Cosenza – a Vaglio Lise sono 260 i detenuti, a fronte dei 218 posti previsti sulla carta – ci sarebbero tutto a un tratto una novantina di pazienti Covid-19 in più. Quasi un terzo, quindi, di tutti i casi accertati finora nell’intera Calabria. Il carcere di via Popilia non è certo l’unico della regione, per cui i contagiati potenzialmente potrebbero essere centinaia e centinaia. Impossibile isolare gli eventuali malati nelle celle sovraffollate, così come mandarli tutti negli ospedali, che hanno già i posti letto contati.

Le proposte della Camera penale al Governo

La Camera penale chiede al Governo un passo indietro prima che sia troppo tardi. Ricorda quanto scrisse Dostoevskij in Delitto e Castigo: il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni. E suggerisce le soluzioni per disinnescare «l’ordigno pronto a esplodere nel cuore di ogni città» prima che sia troppo tardi:

  • L’eliminazione della condizione ostativa del ‘braccialetto elettronico’ e una voce di spesa nelle disposizioni finanziarie che preveda un acquisto tale da soddisfare l’intera domanda.
  • L’ampliamento e il più agile accesso alle misure alternative alla detenzione ed ai permessi premio.
  • Il potenziamento dei mezzi di comunicazione a distanza per favorire la presenza alle udienze, i colloqui con i difensori e i colloqui con i familiari.
  • La realizzazione di strutture ad hoc e/o l’utilizzazione di quelle già esistenti sul territorio dove potere concentrare gli stranieri detenuti, con la presenza di volontari e mediatori culturali, garantita su turnazione, incentivando – ove possibile – corsi di studio della lingua italiana nonché di apprendimento di lavori artigianali.

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