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25 aprile, il grido di libertà dei partigiani calabresi

Spesso c’era la neve, alta, tanto da rendere arduo il più piccolo spostamento. Bisognava tentare di nascondersi lì nelle grotte delle montagne, cibandosi a volte solo di mele. Molti non erano soldati, erano contadini, artigiani o medici, avvocati, addirittura studenti che dai libri si trovarono a fronteggiare una guerra, loro che un fucile da vicino non l’avevano

25 aprile, il grido di libertà dei partigiani calabresi

Spesso c’era la neve, alta, tanto da rendere arduo il più piccolo spostamento. Bisognava tentare di nascondersi lì nelle grotte delle montagne, cibandosi a volte solo di mele. Molti non erano soldati, erano contadini, artigiani o medici, avvocati, addirittura studenti che dai libri si trovarono a fronteggiare una guerra, loro che un fucile da vicino non l’avevano mai visto. Giovani e inesperti, ma forti di un ideale comune, quello della libertà. Dalle campagne calabresi dove soffiava il vento delle sommosse contadine contro il terrore nazifascista, fino alle Brigate nei territori del Nord, ai lager dove vennero deportati, i partigiani calabresi hanno combattuto e resistito fino alla fine. Fino alla morte. O oltre, per quanti hanno potuto testimoniare con la propria vita l’esperienza della Resistenza.

I partigiani della Resistenza calabrese

Mario Martire, partigiano cosentino, originario di Pedace, amante del volo, si arruolò nelle file dei partigiani veneziani; a causa di una spia fascista, venne arrestato dalle SS nel maggio del ’44 poco più che ventenne e rinchiuso a Santa Maria Maggiore. Qui attese tre mesi prima di essere deportato in Austria, nel lager di Mathausen dove tra le punizioni che venivano inflitte, viti che bucavano l’osso della caviglia, grattugia sulla spina dorsale, alcool sulle lacerazioni, chiodi roventi nelle unghie dei piedi. Sveglia all’alba, tutto il giorno ai lavori forzati, un chilo di pane ogni venti persone. Il suo corpo così fu ridotto ad uno scheletro, ed esausto finì in un carnaio chiamato infermeria. Poi il forno crematorio, e «in quella desolazione la sua fiorente giovinezza anelante la Patria lontana si spegneva, immolata all’Altare della risorta Libertà». In una sua lettera ai genitori prima dell’arresto, li invitava «a non avere debolezze, a restare uniti per concorrere oggi, domani e sempre a epurare tanta corruzione». In suo nome, il ponte che allaccia la  città nuova alla città vecchia che ogni cosentino conosce. Originario di Cosenza il giovane partigiano Bruno Geniale, della Brigata Garibaldi “Aldo” di Parma. Lo arrestarono durante un’imboscata e lo deportarono nel campo di Mauthausen. Qui venne bruciato nel forno crematorio. A soli 21 anni

Il partigiano dalla pelle scura, quello taciturno e altri nomi di partigiani

Era di Rogliano Donato Bendicenti, avvocato, membro del Comitato forense di agitazione. Arrestato, venne poi torturato durante un lungo interrogatorio, ma non rivelò nulla sui suoi compagni. Viva l’Italia, il suo grido prima di morire. Dopo la Liberazione, al martire delle Ardeatine, la città di Cosenza ha intitolato una via. Carmine Nastri originario di Palmi fu un’altra delle 335 vittime delle Ardeatine. Socialista, prese parte alla Resistenza romana. Morì sfigurato, a causa delle torture subìte. Ma mai una parola uscì dalle sue labbra, solo il silenzio di un eroe. Filippo Caruso, giovane militare di Casole Bruzio, partecipò alla guerra in Libia, e a Roma si mise a capo di formazioni partigiane di carabinieri. Una volta tratto in arresto, inghiottì dei documenti che avrebbero altrimenti compromesso la vita dei suoi collaboratori. Torturato e seviziato al carcere di via Tasso, ebbe la forza di rincuorare i suoi compagni di prigionia. Scrisse una lettera alla moglie carica di parole d’amore e di rassegnazione per la sua sorte.  

Emilio Cirino di Montalto Uffugo volontario nella Prima guerra mondiale venne inviato in Albania dove si scontrò insieme ai suoi compagni contro i tedeschi. Gli fu ordinato di rientrare in Puglia per sovrintendere ad alcuni reparti, ma decise di tornnare dai suoi commilitoni in Albania dove venne fucilato da eroe, al grido di Viva l’Italia.

Cesare Curcio, nacque a Pedace, era un contadino comunista e per questo perseguitato politico; venne condannato a due anni di carcere per essersi semplicemente rifiutato di fare il saluto romano. Fu il primo contadino calabrese ad entrare poi qualche anno più tardi a Montecitorio

Giorgio Marincola, il partigiano dalla pelle scura, originario di Pizzo era nato in colonia da una donna somala. Studiava medicina quando insieme ad alcuni amici e compagni di classe entrò nelle formazioni armate del Partito d’azione, partecipando alla Resistenza romana. Anche dopo la Liberazione di Roma decise di continuare la Resistenza militare; durante un rastrellamento lo costrinsero a parlare ai microfoni di Radio Baita, una radio di disinformazione tedesca dove avrebbe dovuto inneggiare al nazismo, ma queste le parole che pronunciò «Sento la patria come una cultura e un sentimento di libertà, non come un colore qualsiasi sulla carta geografica. La patria non è identificabile con dittature simili a quella fascista. Patria significa libertà e giustizia per i popoli del mondo. Per questo combatto gli oppressori». 

Federico Antonio Tallarico, detto il Frico, partigiano della provincia di Catanzaro che prese parte attivamente alla Resistenza piemontese, nella Brigata Niccioleta. Arrestato, durante l’interrogatorio, nonostante la pressione psicologica del momento, ebbe la lucidità di dare informazioni sbagliate sui propri compagni, ad alta voce, cosicché il fratello Antonio, avrebbe potuto sentire e rispondere allo stesso modo. Fu condannato a morte, ma venne risparmiato perché considerato utile per eventuali trattative. Venne poi liberato grazie all’aiuto della sorella Nina; insieme parteciparono alla Liberazione di Torino. Già, liberato grazie all’aiuto di una donna. 

Le donne partigiane e i più giovani

Tante infatti le partigiane il cui ruolo nella Resistenza fu fondamentale. Nina era studentessa in medicina, oltre al ruolo di staffetta, assicurava le cure ai propri compagni feriti. E poi c’era Caterina Fadel di Cosenza, della brigata Garibaldi; Giovanna Vuorinna di Rossano Calabro, Maria Iaconetti di Carolei, entrambe partigiane in Piemonte. Molti studenti cosentini ricorderanno Anna Condò, di Reggio Calabria, insegnante di lettere al Liceo B. Telesio di Cosenza, che ancora oggi, con il viso ancora più solcato e ancora più minuta, sente il bisogno di ricordare la sua esperienza di staffetta partigiana, lei che poco più che adolescente vide il fratello morire davanti agli occhi.

La lista dei partigiani che giovanissimi presero parte alla Resistenza è davvero lunghissima, Salvatore Rizzo, detto Turiddu di Amantea, Vincenzo Errico, detto Vittu, di Verbicaro morti entrambi a 22 anni; Giambattista Mancuso, studente di Palmi che trasportava armi ai partigiani in Val Brembana, ucciso durante un rastrellamento, a 22 anni; Saverio Papandrea, di Vibo Valentia, da futuro avvocato a partigiano in Piemonte, poco più che ventenne, si immolò per salvare la vita ai suoi compagni. E tanti altri ancora i partigiani calabresi, di cui sappiamo poco, a volte solo il soprannome. Altre volte neppure quello. Eppure, a ciascuno di loro, a quei pugni chiusi alzati con coraggio, sappiamo di avere il dovere di dire rivolgere un pensiero. Spesso ce ne ricordiamo però solo una volta all’anno, quando la musica di Bella Ciao ci riporta a riaprire quella scatola dei ricordi e a commuoverci, rovistando tra le foto impolverate. Una sull’altra, confuse negli anni di una memoria “che non merita di essere riposta in un cassetto, ma che deve essere accesa come una miccia. Perché la memoria non è conservatrice, è sovversiva”. E la parola Liberazione, di cui oggi possiamo dirci fieri, oltre che portare con sé il dovere della gratitudine, ci rimanda a quello più grande della Resistenza. Ogni giorno, nelle nostre case, con la nostra vita, per un giorno migliore.

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