martedì,Aprile 22 2025

Ma che piccola, ignobile storia che mi tocca raccontare

È molto bello buttar giù un pezzo per un giornale della propria città. È pulizia mentale che ti passa attraverso le branchie della quotidianità. E contemporaneamente può portarti a parlare di cose più piccole del tuo quartiere o più vecchie dei tuoi anni. E oggi mi piove addosso una piccola storia ignobile molto più distante

Ma che piccola, ignobile storia che mi tocca raccontare

È molto bello buttar giù un pezzo per un giornale della propria città. È pulizia mentale che ti passa attraverso le branchie della quotidianità. E contemporaneamente può portarti a parlare di cose più piccole del tuo quartiere o più vecchie dei tuoi anni. E oggi mi piove addosso una piccola storia ignobile molto più distante delle mie braccia. Si è suicidata Sarah Hijazi, una trentenne egiziana esiliata in Canada perché nel suo Paese aveva provato a dare veste politica e di rivendicazione ai diritti di lesbiche e omosessuali.

Attenzione: nulla di colorito, nulla di famelico, nulla che possa urticare principi di buon gusto (peraltro, essi talora opinabili come pochi!). In Egitto, come per ragioni diverse in troppi Paesi a questo mondo, la percezione diffusa, dei poteri e purtroppo anche di tante persone, è che gli omosessuali debbano starsene il più possibile anestetizzati, allontanati allo sguardo, rincantucciati, lobotomizzati. Nel caso di specie, il fermo più clamoroso per Hijazi era arrivato dalla semplice ostensione di una bandiera arcobaleno durante un concerto. Il Cairo e in realtà tutte le città cosmopolite del Mediterraneo, asiatico africano ed europeo, hanno da tempo nelle proprie culture giovanili e non una tale rappresentanza di varietà di stili di vita che, passando negli atenei nei porti e nelle strade, puoi percepire finalmente una certa tranquillità, una sensazione di multiculturalismo senza catene, di errori e di scelte, di libertà e dignità.

Eppure, persino lì, dove la cultura e la società si sono storicamente smosse al ritmo dei loro cittadini e delle loro pratiche, può succedere il peggio a finire sotto i mirini sbagliati.

Sarah Hijazi, liberata ormai un anno addietro, nel periodo di detenzione – ma è questa mai la detenzione del diritto, la detenzione minima, la detenzione dopo un provvedimento motivato e definitivo? – aveva subito torture, violenze, forme truci di vessazione fisica e stupro. I benpensanti dei “diritti massimi” avranno certo buon gioco a dire che, nonostante tutto, i movimenti internazionali, le manifestazioni di piazza e la pressione della parte più incisiva del lobbying umanitario avevano ottenuto la liberazione della ragazza; a differenza di troppe anonime, stuprate in casa, uccise in galere di fortuna, fatte volare dai cigli, buttate minorenni ai bordelli e alle voglie di genti senza scrupoli. Lo sappiamo. Ma, e qui veniamo all’altro tema che ci sta a cuore nei diritti di tutti, nei diritti delle donne oppresse attraverso cui vediamo allo specchio quel che non funziona, non sempre si riesce a sopravvivere a lungo al male che si subisce pur senza farsi uccidere.

Privata della sua femminilità, osteggiata per la sua sessualità, spedita a migliaia di chilometri dalla propria terra, con quelle ferite che non sempre cicatrizzano (va bene quando succede a quelle del corpo, quelle dell’anima devi imparare a guardarle e non è mai un gioco a somma zero). Ecco, proprio in quella condizione, Sarah Hijazi ha ammesso di non esser riuscita a farcela. I grandi monoteismi tengono sempre in un certo e forse giustificato sospetto i suicidi. Il Dio che usarono a scudo della loro bava i suoi sequestratori, siamo certi, se li guarda, avrà molta più compassione di quel volto fragile con gli occhialetti tondi e sfondati che non degli stivali, delle uniformi e delle celle dei suoi aguzzini quasi mancati.