Quei padri che uccidono i figli: le stragi domestiche
È più frequente che le stragi domestiche, compiute dall’uomo del nucleo familiare, nascondano gravi forme depressive. Ecco gli ultimi casi.
Non c’è mai una sola causa che spinge un soggetto a compiere un gesto omicida nei confronti di un familiare. Ancora più complesso è comprendere perché un genitore (madre o padre) tolga la vita al proprio figlio. Può trattarsi di più motivazioni che talvolta derivano dalla malattia mentale, ma in molti casi, la spinta deriva da un disagio esistenziale o dalla volontà di far del male al partner attraverso i figli.
Cosa nascondono le stragi domestiche
È più frequente che le stragi domestiche, compiute dall’uomo del nucleo familiare, nascondano gravi forme depressive: si sente la necessità di uccidersi e si vuole portare con sé le persone che si amano di più. È una sorta di suicidio allargato“per pietà” che scaturisce però, ovviamente, da una convinzione patologica. Questo, in qualche modo, per sottrare i familiari di cui ci si sente responsabili, ad un destino che al soggetto in questione pare di sofferenza terribile.
La perdita del lavoro è spesso il detonatore dei conflitti che il soggetto già vive, ma che fa emergere l’aggressività ed i pensieri di morte. Un esempio è il caso del Marzo 2017 in cui un padre ha ucciso i due figli a martellate prima di togliersi la vita a causa di un dissesto finanziario nascosto a tutti. Una madre che uccide suo figlio, invece, quasi sempre nei mesi successivi al parto, è una donna sprofondata in un abisso, i cui nessuno è riuscito ad accedere.
Cos’è il “baby blues”?
L’atto è frutto di un disagio che annulla il sentimento materno, il controllo dei gesti, la lucidità nel riconoscere il dolore, nonché la capacità di chiedere aiuto per gestire un mondo che, dopo la nascita del figlio, non è più a lei riconoscibile. Gli americani chiamano questo vuoto abissale “baby blues”. Altra è la così detta sindrome di Medea, che riguarda bambini non proprio in fasce e che è quasi sempre una vendetta trasversale, per ferire un Giasone ben preciso.
Si verifica quando l’azione è finalizzata alla distruzione del rapporto tra padre e figli dopo le separazioni conflittuali: l’uccisione diventa simbolica e ciò che si mira a sopprimere non è più il figlio stesso, ma il legame che ha con il padre. Resnick definisce questo omicidio “un attentato deliberatamente concepito per far soffrire il proprio coniuge“; lo Psichiatra inglese P. T. D’Orban delinea le madri che uccidono i figli per rivalsa, descrivendo la presenza di situazioni vacillanti e conflittuali con il coniuge.
In tutti i casi, quello che comunque non si accetta con la logica comune è che esistono madri che in sostanza odiano i propri bambini: vogliono cancellarli, capovolgendo l’istinto materno trasformandolo nel suo contrario istinto omicida. Pur se con meno frequenza, esistono però anche padri che tolgono la vita ai propri figli per una ritorsione nei confronti delle madri.
L’ultimo caso in cui un padre ha ucciso i suoi figli
L’ultimo tragico esempio – pare – visto che ancora sono in corso tutte le indagini volte a stabilirne le dinamiche, è quello dell’uomo della provincia di Lecco che qualche giorno fa ha strangolato a mani nude i figli di 12 anni. Altro esempio è quello del maggio 2019 in cui ha perso la vita un bimbo di due anni a Milano; segue quello del gennaio 2019, a Torino, dove un uomo ha ucciso il figlio adottivo con il cavo del pc, l’altro del novembre 2018, nel mantovano, in cui un padre ha dato fuoco alla casa, uccidendo il figlio di 11 anni, perché era stato cacciato da casa. Ancora, si ricorda quanto accaduto nel Maggio 2016 in Valtellina, dove un papà di 43 anni ha ucciso il figlio di sette, soffocandolo, per poi impiccarsi.
Un futuro infelice
Anche nei padri, dunque, ad eccezione di quando compiono questi gesti tragici con l’idea di evitare al figlio il perdurare di sofferenze dovute ad esempio a delle malattie, possono essere presenti gli stessi sentimenti di vendetta, di onnipotenza e di incapacità nel rispettare il bambino come persona, usandolo come “arma”. La differenza con Medea è però che i padri si autoconvincono di far credere agli altri di commettere il figlicidio sempre per “altruismo” o per “estremo atto d’amore”, sottraendo i propri bambini ad ogni sofferenza e proteggendoli da un futuro di infelicità. Non lo fanno per rendersi liberi.
Per questo, quasi sempre, dopo il gesto, si tolgono la vita. Le donne invece con meno frequenza. Gesti, pertanto, in parte imprevedibili che però aggiungono al dramma la presenza di segnali di allarme a volte presenti – e per i quali c’è molta resistenza ad accettarli – altre volte in realtà invisibili.
Malattie mentali all’interno della famiglia
Spesso, infatti, si verifica il rifiuto di individuare e riconoscere i malesseri e le malattie mentali all’interno della famiglia, quando invece tali situazioni dovrebbero essere affrontate senza vergogna, bensì come una patologia. Il raptus, d’altra parte, non esiste in psichiatria, ma è piuttosto una espressione letteraria- giornalistica che separa l’autore dal reale movente e non c’entra nulla con una eventuale incapacità di intendere e volere.
Una motivazione in un gesto efferato c’è sempre, al di là dell’aspetto strettamente penalistico, anche quando dovesse essere accertato in sede processuale che il soggetto in questione, al momento del fatto, non sia capace di comprendere ed autodeterminarsi. Sono indagini, quella psichiatrica e quella psichiatrico-forense, che vanno tenute ben distinte.
L’unica soluzione sarebbe, dunque, quella di prestare attenzione, senza preoccuparsi in modo ossessivo ed altrettanto pericoloso di ogni singolo gesto dell’altro, ma piuttosto preoccupandosi di più della sofferenza di chi ci sta vicino, parlando e cercando un aiuto esterno, se necessario.
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