“L’ultimo drago d’Aspromonte”, la favola della montagna che ingoiò un dolore
Le favole più antiche cominciano sempre nel bosco. Perché è lì che la natura tira fuori le spine e ti entra negli occhi. Nel buio di un bosco desolato nessuno è lì ad ascoltare i mormorii dei muschi e, quindi, forse non esistono. Soltanto quando qualcuno ci piomba dentro, comincia tutto, comincia una storia. I
Le favole più antiche cominciano sempre nel bosco. Perché è lì che la natura tira fuori le spine e ti entra negli occhi. Nel buio di un bosco desolato nessuno è lì ad ascoltare i mormorii dei muschi e, quindi, forse non esistono.
Soltanto quando qualcuno ci piomba dentro, comincia tutto, comincia una storia. I rami spettinano, le capre fanno malìe, gli incavi dei vecchi alberi diventano grotte umide, rifugio di tassi e spiriti vecchi con le unghie lunghe. Puoi stare alle regole del bosco, o puoi scappare via, cercare la radura, inghiottire il viottolo che porta alle case, alle parole, alle strade battute che restituiscono la realtà solida, pronta in scatola.
Gioacchino Criaco scrive la sua favola tra pagine spesse e chine d’autore. “L’ultimo drago d’Aspromonte” (Rizzoli Lizard, p. 188), con le belle illustrazioni di Vincenzo Filosa che alitano come un vento odoroso di foglie fresche tra un capitolo e l’altro, è pura magia, una casa degli spiriti sospesa tra le atmosfere selvatiche di Miyazaki e il soprannaturale di Shyamalan.
La storia culla l’illusione e la porta in giro miscelandola al futuro possibile, desiderato, ai brusii fiabeschi dell’infanzia profonda. Diventa, man mano, un ventre caldo, ti fa venire fame di qualcosa di pronto e sugoso, voglia di perdere l’orientamento, costruire un letto tra la terra viva e le ghiande.
Come ha fatto Nì che ha la testa che batte. Fin da piccolo è così: il pensiero si scolla, tutto rattrappisce e si secca, ma lui, invece, vuole correre veloce e allargare ogni cosa con le mani per vedere cosa c’è dentro che pulsa e fa male.
Dentro Nì, la luce va svelta, così svelta che rallenta il tempo: gli altri invecchiano, lui resta un bambino con un problema che va curato, sedato, tagliato ai bordi per farlo entrare nel quadro. Solo così diventerà normale, uno come gli altri. Niente più rabbia, niente più testa in bufera. Basta qualche pastiglia e il mondo si riallinea.
E anche Nì si riallinea e quando lo fa tutti sono in pace. Poi, però, è ancora smania, ancora burrasca sotterranea che spinge per venire fuori a scompaginare l’ordine, a toglierlo dalla linea dove tutti marciano a sincrono un-duè-un-duè.
Essere normale, essere normale, è un mantra, una preghiera, poi un ordine militare. Marcia, marcia come i tuoi simili, gli dicono, o non sarai mai felice. Ma niente, nel crepaccio ci ricasca dentro. Un buco nero senza rametti secchi a cui aggrapparsi con una mano, a gambe penzoloni. Un buco che divora tutte le comete e i pianeti che gli girano intorno per trascinarli oltre un orizzonte degli eventi da cui non si torna, in cui neanche la luce resiste. Niente luce, niente tempo, niente Nì. Il drago si arrotola nelle spire e ricomincia a fiammeggiargli dentro, lo chiama.
Ed ecco il bosco d’Aspromonte. Lo incontra casualmente. Ci rabbrividisce dentro. In una casa sperduta, inghiottita tra lecci e querce, ammorbidita dalle foglie cadute, Nì cerca la realtà vera, un berretto da cucire sulla sua testa morbida che, come un elastico di fionda, si tende e fa male e poi colpisce con violenza. Si scalda la pasta, coltiva l’orto, ascolta i pomodori, le zucchine, i germogli che nascono. Piange le sorti dei porci ammazzati a gennaio, stringe amicizia con uno di loro, un ribelle che al punto di essere scannato, riesce sempre a fuggire.
Lo cura, gli dà da mangiare, si fanno compagnia. Lo chiamano il Sindaco. Ha la spocchia del sopravvissuto, di chi l’ha fatta sempre a tutti e non deve dire mai grazie e per favore. La guarigione di Nì si consuma nell’andirivieni tra la baita e il paese in cui fa rifornimento di viveri. Su una montagna che è quasi dantesca, nei cui gironi si avviluppano le edere e i sensi di colpa, Nì vive e vi si immerge. Dorme all’ombra di un drago ferito che non rinuncia a respirare e si scalda con le sue stesse fiamme.