La (il)logica dell’ospedale da campo
La scena ricorda quasi certi reportage da Mostar, Mogadiscio, Grozny, Kabul e tutti gli altri posti al mondo dove si sono combattute sporche guerre a danno degli ultimi e dei bambini. A corroborare la gravità dell’immagine il piccolo stuolo di carri armati, che invece fa venire in mente il primo spezzone della pandemia, quando nella
La scena ricorda quasi certi reportage da Mostar, Mogadiscio, Grozny, Kabul e tutti gli altri posti al mondo dove si sono combattute sporche guerre a danno degli ultimi e dei bambini. A corroborare la gravità dell’immagine il piccolo stuolo di carri armati, che invece fa venire in mente il primo spezzone della pandemia, quando nella Bergamasca erano carri dell’esercito a scortare salme cremate. Un’inquietante premonizione di decenni addietro ammoniva: «hanno rimandato a casa le loro spoglie nelle bandiere legate strette perché sembrassero intere». Il fatto è che l’idea e la realizzazione di un ospedale da campo a Vaglio Lise di Cosenza sfuggono a ogni classificazione di drammaticità perché sembrano soprattutto illogiche e malpensate.
La rete sanitaria calabrese è stata scientificamente spolpata: specialmente tanti piccoli presidi locali, dove pure saranno avvenute malefatte e convenienze, avevano una funzione effettiva di prossimità territoriale. E pazienza se quel meccanismo virtuoso si traduceva all’opposto in una strana via di mezzo tra lo stoccaggio e il filtraggio verso le strutture più grandi: per la spedalità quotidiana anche quei percorsi accidentati erano un sussidio e un senso di presenza.
Bisognava anzi correggere e partire da là, anni e anni orsono. Appena ieri, all’inizio della pandemia, bisognava guardarsi in faccia e riconoscere a pelle quel che non poteva funzionare: se i ricoveri da Covid-19 fossero aumentati (e sarebbero aumentati), si sarebbe dovuto capire come migliorare le virologie e pneumologie con una programmazione. Vivere i giorni dei contagi ridotti come occasione opportuna per pianificare la transizione e, se del caso e come sempre sperabile, creare l’eccellenza. Non lo si è fatto: si è andati un po’ a casaccio, come tutto il Paese, quando dopo stremanti settimane di cortina di ferro l’estate ha portato per due mesi l’illusione che non fosse successo nulla. Quell’illusione serviva ai consumi, ma le illusioni non resuscitano i bisogni e i desideri non conseguiti ieri e anzi strangolano quelli voluti e avuti domani.
Suona strano che con i pochi ospedali rimasti, spesso in arretrato rispetto ai minimi approvvigionamenti terapeutici e diagnostici, da potenziare e riqualificare, si sia scelto di intestarsi la creazione di un “lazzaretto” ad hoc, in un quartiere che storie alla città di Cosenza tante ne racconta. Vaglio Lise, si, altro quartiere di storia buttata e presa a calci. Qui, gli anni ruggenti di una stazione locale ridotta da ben prima del Covid a mero aggancio periferico per la mobilità regionale (in primo luogo Paola, già Reggio Calabria e Lamezia quasi off-limits partendo dalla città dei Bretti, per non parlare di Napoli e Salerno). Poi la tentata riqualificazione con attività economiche e trasferimento di uffici, ma sempre e comunque la bolla di un non luogo. Un non luogo, per capirci, dove atroci inchieste di un passato anche recente ci hanno parlato addirittura di prostituzione minorile, degrado urbano, precariato abitativo in assenza di igiene e sicurezza.
L’ospedale da campo non nasce per far risorgere un luogo, esattamente come al momento, tra le umidità del fiume e gli scarichi della vicina superstrada, non ci suggerisce la quiete dei sanatori di Bath dove i repubblicani inglesi curavano le ferite della loro anima e le malattie dei loro polmoni. Forse serviva una parata, o, detta senza malizia, almeno trasmettere l’input di star agendo, di star facendo un qualcosa. A gazebo montati, però, far cosa non si è capito.