È ancora lunga
L’ultima partita di Diego Armando Maradona risale al 25 ottobre 1997 e io dovevo ancora compiere 16 anni. Era un superclásico tra il Boca Juniors e la seconda squadra di Buenos Aires, ma per me la sua carriera si era già chiusa (rectìus: gliel’avevano fatta chiudere) tre anni prima a Boston, durante i Mondiali di
L’ultima partita di Diego Armando Maradona risale al 25 ottobre 1997 e io dovevo ancora compiere 16 anni. Era un superclásico tra il Boca Juniors e la seconda squadra di Buenos Aires, ma per me la sua carriera si era già chiusa (rectìus: gliel’avevano fatta chiudere) tre anni prima a Boston, durante i Mondiali di Usa 94. Dunque mi sono stupito parecchio quando, da mercoledì scorso, ho scoperto che non riuscivo più parlare d’altro che non fossero vita, morte e opere del più grande giocatore di tutti i tempi. Mi ha consolato molto scoprire che non ero il solo. Non vi tedierò con riflessioni sull’impossibilità di scindere Maradona uomo da Maradona calciatore (c’è chi lo ha fatto molto meglio di me) e su cosa abbia significato non tanto per il calcio quanto per tutti i Sud del mondo. C’è tuttavia una cosa che credo fosse all’origine della mia commozione (e di quella di molti altri) e che risiedesse nel concetto di tempo.
Nel calcio al quale eravamo abituati, fino alla mia generazione, l’unico modo per vedere la gran parte delle partite era andare allo stadio. Un amico mi ha ricordato che, a Quattromiglia, spesso c’erano macchinate di gente in partenza la domenica per Napoli – e non per vedere il Napoli, ma per vedere Maradona. Oggi non ce ne sarebbe bisogno: i numeri dei migliori calciatori in circolazione li troviamo continuamente, dai social alle piattaforme tv. Ogni volta che lo desideriamo, possiamo persino rivederli (una volta, invece, serviva il registratore: e quanti ce l’avevano?).
C’era uno spazio tutto mentale nel quale la mia generazione ha sperimentato il calcio. Mentre lo scrivo non provo nostalgia: ne parlo come di un dato di fatto. Mentale e spaziale: chi, come me, frequentava il Tirreno cosentino negli anni Novanta, ricorderà come tutti i napoletani in villeggiatura da Scalea in giù giocassero alla Maradona. E cioè provassero e riprovassero giocate di cui, spesso, noialtri non avevamo nemmeno idea. Trent’anni fa infatti gli unici ad essere davvero vicini, nello spazio e nel tempo, a Maradona erano i napoletani. Come noi, a Cosenza, in dimensioni diverse (mai mi azzarderei a dire ridotte) con Gigi Marulla.
Il tempo del calcio era definitivo, assoluto. Ed è forse questo ad avermi colpito nella morte di Maradona: un distacco definitivo, assoluto che avviene in un’epoca in cui invece lo spettacolo calcistico è riproducibile all’infinito (mentre, ai suoi tempi, così non era). Il calcio ai tempi di Maradona durava davvero novanta minuti – e il calcio di Maradona durava addirittura attimi, quelle frazioni di secondo in cui era in grado di cambiare completamente verso a una partita, partendo dall’idea che il calcio potesse riscattare un popolo intero, napoletano o argentino che fosse. Il calcio ai tempi di Maradona eravamo felicemente costretti a riprodurlo nella nostra testa (oggi, invece, è la nostra testa che ne subisce la riproduzione). Per dirla altrimenti: è esistita nel mondo una generazione (e sembra impossibile crederlo, guardandoci oggi intorno) che non aveva bisogno di rivedere il gol del siglo su Youtube, perché se lo sapeva tenere dentro. E, se nella memoria lo teneva, poteva persino replicarlo nel gioco. Come i napoletani a Scalea. Poche cose spiegano, secondo me, il potere rivoluzionario del calcio più di questo.
D’altronde il tempo del calcio è molto particolare. Non è “frazionato” e “dilatato” come quello del volley o del basket (quest’ultimo pure gioca sul filo dei secondi). Ed è per questo che, domenica sera, mi ha colpito molto la prospettiva con cui Occhiuzzi ha affrontato la seconda parte del match contro la Salernitana – che, vi anticipo, non mi ha indotto al clima da de profundis che vedo invece molto diffuso in giro. È ancora lunga, diceva ai suoi in campo, quando mancava mezz’ora alla fine della ripresa, e sembrava già il momento giusto per fare qualche sostituzione. A me, per esempio, quando si è in svantaggio, le partite sembrano tutte un grande countdown con il Bianconiglio che strilla è tardi, è tardi, ma ammetto che il problema è tutto mio.
D’altra parte, dopo le ultime tre partite (la vittoria col Frosinone, la sconfitta di Parma e lo 0-1 del Marulla), che sia ancora lunga lo penso anche a proposito del nostro campionato. Il Principe ha ragione, quando sottolinea la fretta, gli errori di imprecisione e la precipitosità della squadra nei momenti chiave della partita contro la Salernitana. Carretta e Baez non hanno brillato, ma le difficoltà sono state soprattutto sulle fasce: Vera si è spento nella ripresa, Bittante non si è quasi mai acceso.
Castori è un vecchio marinaio della serie B ed è stato abile nel rispondere ai molti cambi di gioco decisi in corsa da Occhiuzzi, togliendo sempre profondità all’azione rossoblù (Balù è spesso dovuto risalire in mediana a cercare palloni). E forse a quel punto, anziché cercarla sulle corsie esterne, avremmo potuto agire prima per vie centrali con Sacko e Petre (visto che la difesa granata era guidata da Gyomber, non esattamente la reincarnazione di Scirea). Forse, almeno il primo, potrebbe iniziare ad avere un po’ di spazio in più.
È ancora lunga per il Cosenza, ma adesso la squadra un’identità di gioco chiara ce l’ha. Tra le sconfitte contro Brescia e Chievo e la rete dell’ex Tutino (sempre sia lodato, anyway) (e chi la pensa diversamente si merita Leo Battaglia alla Regione) c’è stato un salto di qualità enorme dei Lupi. Adesso che l’identità è chiara, Occhiuzzi (per dirla alla Pirandello) deve lavorare sulle “maschere”. E cioè sull’inserimento di quei giocatori che possono rendere più imprevedibili le soluzioni di gioco. Oppure, anche, sull’arrivo di giocatori nuovi, a gennaio.
È ancora lunga, ma i tempi ora si fanno stretti. A partire da domenica prossima, il Cosenza giocherà otto partite nel giro di trenta giorni – più o meno tante quante nel tour de force salvezza dell’estate scorsa. E nel calendario c’è di tutto. Cinque di queste avversarie si trovano in classifica, ad oggi, alle spalle dei rossoblù (Vicenza, Pisa, Ascoli, Cremonese, Pescara), una alla pari (Reggiana) e solo due molto più su (Venezia ed Empoli). Come già ebbi modo di dire la scorsa settimana, questo non significa che il calendario sia semplice.
Teniamo conto (al netto dei cambi di panchina: il primo, all’Ascoli, con Delio Rossi) che molti proveranno ad adottare contro il Cosenza proprio il “modello Salernitana”: togliere profondità, occupare le corsie esterne e ripartire in contropiede. Quindi servirà davvero molta concentrazione per uscire in piedi da queste otto gare.
Quello che, invece, non serve è il muro del pianto. Abbiamo perso una partita difficile, contro la capolista del torneo (che, finora, era stata sconfitta una volta sola, dalla Spal), dopo un primo tempo alla pari e sprecando (in dieci uomini) con Balù la chance del pari. Le “ferite” di cui parlavo sette giorni fa non sono cambiate. I piani gara possono funzionare o no, i singoli sbagliare o meno, ma se una squadra ha trovato una sua identità (e la fa maturare) i risultati arrivano. È ancora lunga, credetemi.