Twitter e Facebook hanno tutto il diritto di sospendere l’account di Trump
Nulla impedisce a Twitter e Facebook di rimuovere l’account di un qualsiasi utente, chiunque egli sia. Ecco perché Trump non ha ragione.
È di ieri la notizia secondo cui, durante l’assalto a Capitol Hill del 6 Gennaio, il vice presidente Mike Pence sarebbe sfuggito per poco alla folla dei sostenitori di Trump, che avrebbero addirittura voluto impiccarlo. Secondo il Post, infatti, se gli insorti fossero arrivati solo un minuto prima, avrebbero visto dove era stato nascosto il vicepresidente, sottolineando che quest’ultimo è stato evacuato dal Senato soltanto alle 14.13, dunque ben 14 minuti dopo l’inizio dell’assalto. Nonostante questi ulteriori sviluppi, come se non bastassero già le immagini surreali dell’occupazione, i morti e i feriti, c’è ancora qualcuno che si meraviglia del blocco degli account social subito dall’ex Presidente Trump.
Ricordiamo, a tal proposito, che sin da prima che si andasse alle elezioni, il leader dei repubblicani, ha diffuso attraverso le varie piattaforme social l’idea che ci fosse il pericolo di brogli elettorali – mai dimostrati – e che il 6 gennaio scorso, come diretta conseguenza, migliaia di persone, molte delle quali armate, si sono ritrovate innanzi alla sede del Congresso americano, dove era in corso la certificazione dei voti ottenuti da Joe Biden, per protestare contro l’insediamento alla Casa Bianca del neoeletto, ma che l’adunanza era stata organizzata tra il 2 e il 3 gennaio proprio a mezzo web, attraverso la piattaforma Parler. Conseguentemente, Google e Apple rimuovevano Parler dai propri app store e Amazon interrompeva il servizio di hosting mettendo il servizio definitivamente off-line.
Non è ovviamente chiaro se Trump fosse o meno al corrente dell’intento dei dimostranti, ma pare che all’inizio abbia espresso soddisfazione per quanto stesse accadendo e che solo quando la situazione è degenerata è intervenuto, ma in modo poco incisivo. Nello specifico, per lodare i manifestanti dicendo che comprendeva la loro rabbia per l’elezione rubata ed invitandoli, in modo non molto convincente, alla pace.
I tweet che hanno, dunque, fatto scattare il social sono due: il primo quello in cui anziché stigmatizzare l’accaduto, reclamava le ragioni dei “patrioti americani” invocando il loro rispetto e rassicurandoli che “non saranno trattati ingiustamente, in qualunque modo, maniera o forma”, il secondo in cui dichiarava che non avrebbe partecipato alla cerimonia del 20 gennaio.
Tali messaggi, alla luce delle risposte ricevute dai followers, letti ai sensi delle policy di Twitter sul “Glorfication of violence” e “Violent threats”, sono stati pertanto prontamente rimossi dalla piattaforma con successiva sospensione dell’account di Trump a tempo indefinito, poi ridotto a 12 ore ed infine in modo permanente. Alla decisione di Twitter sono seguite quelle di Facebook e di Instagram con la medesima misura restrittiva. L’ex presidente Trump è stato poi bandito in modo permanente anche da Youtube e da Snapchat, dopo una iniziale sospensione.
Poche ore prima Twitter aveva tra l’altro bandito anche tre dei più noti promotori di QAnon: l’avvocato Sidney Powell, l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca Mike Flynn e Ron Watkin, colui il quale, fingendosi un funzionario di alto rango dei servizi segreti, ha dato vita alla teoria secondo cui Trump sarebbe impegnato in una missione per liberare gli Stati Uniti da un complotto di satanisti pedofili guidato dai Democratici e dai produttori di Hollywood.
Di fronte a queste corrette decisioni, si è parlato però, senza alcuna cognizione, di “censura” o limitazione della libertà di espressione ignorando un fattore logico fondamentale: togliere finalmente a Trump il megafono attraverso il quale non ha fatto altro che fomentare odio e populismo per tutto il suo mandato, nonché comportamenti eversivi durante la campagna elettorale, equivale al contrario a tutelare la libertà di pensiero, la cui massima espressione consiste proprio nella libertà di esercitare il diritto di voto: quello che Trump non riconosce, con una chiamata alle armi per ribaltare il risultato del suo esercizio.
Del resto non è la prima volta che i social network intervengono in tal senso: anche il profilo Twitter del governo ungherese è stato recentemente momentaneamente sospeso proprio per l’agire antidemocratico dell’esecutivo di Viktor Orban.
E guarda caso, a tuonare contro le decisioni dei Social network, parlando di “fascismo digitale” è paradossalmente anche il presidente Recep Tayyip Erdogan, la stessa persona che sta distruggendo la democrazia in Turchia e che nel mese di ottobre scorso, emanava una legge con la quale rafforza il controllo delle autorità governative sulle principali piattaforme ( Facebook e Twitter) che potrebbero addirittura essere oscurate nel Paese se dovessero rifiutarsi di rimuovere contenuti giudicati controversi.
Tornando alla vicenda americana, dunque, le disposizioni da considerare e che sanciscono la correttezza dell’azione delle piattaforme in questione, sono innanzi tutto il Primo Emendamento (la c.d. Free Speech Clause) ed in secondo luogo, l’art. 230 del Communication Decency Act (CDA) .
Il primo tutela la libertà di espressione dei cittadini, limitando in tal senso l’azione del governo e non dei privati, mentre la seconda disposizione prevede l’irresponsabilità del provider per i contenuti pubblicati sulla sua piattaforma nel caso in cui abbia limitato in buona fede l’accesso a materiale considerato osceno, impudico, lascivo, sconcio, eccessivamente violento, molesto, o altrimenti discutibile, oppure abbia reso disponibili i mezzi tecnici per limitare l’accesso al materiale su indicato.
In sostanza, come ricorda il rapporto del Congressional Research Service (Free Speech and the Regulation of Social Media Content), non esiste dunque una base giuridica per la quale gli utenti avrebbero diritto a non essere rimossi dai social media. Anzi questi ultimi sono legittimati ad intervenire in determinate circostanze per eliminarli.
In Europa, invece, il riferimento si trova all’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Libertà di espressione e d’informazione) che, come il Primo Emendamento, tutela la libera manifestazione del pensiero proprio al fine di garantire i diritti dei cittadini contro uno stato oppressore e non contro altri privati.
Del resto gli artt. 12 e ss. della Direttiva 2000/31/CE dispongono l’irresponsabilità del fornitore per il contenuto dei messaggi transitati sulla propria rete a patto che quest’ultimo: non sia al corrente della natura illecita dei messaggi, o che non appena al corrente della loro illiceità, agisca immediatamente per rimuoverli o per disabilitarne l’accesso.
D’altro canto, tuttavia, i rapporti tra utente e fornitore (il social network) non sono solo regolati dalla legge, ma anche dal contratto e nulla vieta ad un fornitore di stabilire regole e condizioni di accesso ai suoi servizi e quindi di sospenderli in caso di loro violazione. Anzi, trattandosi di servizi resi gratuitamente, nulla vieta altresì al fornitore di interrompere il servizio in qualsiasi momento, anche senza motivazione.
Nello specifico, sia twitter che facebook sono molto chiari nello stabilire il divieto di contenuti che minacciano violenza contro un individuo o un gruppo di persone, che promuovono atti di terrorismo o estremismo violento, sfruttamento sessuale minorile, abusi, molestie, condotte che incitano all’odio razziale, etnico, religioso o sulla base dell’orientamento sessuale.
Si specifica, ancora, il divieto di contenuti che incitano all’ autolesionismo e al suicidio, nonché di condivisione di contenuti eccessivamente cruenti, violenti o per adulti, così come l’impossibilità di utilizzare i servizi offerti per scopi illegali o per supportare attività illecite. Tutto ciò per bilanciare la tutela della libertà di espressione, l’interesse pubblico e diritti dei singoli cittadini, consapevoli del fatto che la rete crea nuove e maggiori opportunità di usi impropri degli stessi.
Da un punto di vista strettamente legale, quindi, non solo Twitter e gli altri social hanno tutto il diritto di sospendere l’account di Trump, ma devono farlo se, in determinate circostanze, non vogliono incorrere in ipotesi di corresponsabilità nelle condotte illecite commesse a mezzo delle loro piattaforme.
Allo stesso modo, posto che nessuno ha negato il diritto di parola e la libertà di espressione a Trump, dal momento che egli può liberamente utilizzare altri canali, nulla impedisce ad Amazon di non prestare l’hosting ai server virtuali di soggetti come che ritiene collegati a movimenti eversivi e anticostituzionali e nulla impedisce a Twitter e Facebook di rimuovere l’account di un qualsiasi utente, chiunque egli sia.