La memoria, l’ostinazione e i dannat
A differenza di Theodor Adorno, non ho mai ritenuto che la poesia diventasse impossibile dopo Auschwitz. La prova é proprio dentro quella infame cancellata finalmente violata: quanti prigionieri salvarono la propria anima rigando di versi le camerate, quanti combattenti e liberatori custodirono tra le rime i sogni di un’Europa salva da una guerra esausta di vita
A differenza di Theodor Adorno, non ho mai ritenuto che la poesia diventasse impossibile dopo Auschwitz. La prova é proprio dentro quella infame cancellata finalmente violata: quanti prigionieri salvarono la propria anima rigando di versi le camerate, quanti combattenti e liberatori custodirono tra le rime i sogni di un’Europa salva da una guerra esausta di vita e di morte. Riformulerei perciò dicendo che senza la poesia Auschwitz sarebbe stata persino molto peggio.
Solo che la poesia, la ricerca e la memoria devono incontrarsi: non ha senso che le tre più brave ballerine al mondo non possano danzare unite in una sola coreografia; le vediamo intersecarsi e cingersi come in un quadro di Matisse. Sul genocidio abbiamo interiorizzato una memoria accomodata più che accomodante; abbiamo detto troppo per esser certi di non dire abbastanza. Oltre che nei film persino sui libri scolastici, ormai si tramanda e crede che la liberazione dei campi di sterminio sia stata compiuta dall’esercito americano. Ricordo peraltro una sagace considerazione di Norberto Bobbio sui rapporti etimologici tra il credere e il tramandare. Si crede da sé qualcosa che ha bisogno di un altro e un altrove: è il senso della forma passiva del creditur latino.
E così cestiniamo i visi e gli stemmi di altri che han fatto lo stesso e di più: le truppe dell’Armata Rossa nell’Europa Centro-Settentrionale; i sikh che erano anche in Italia col contingente angloindiano. Al demone sovietico si fa a gara a riconoscere i torti, ma di questo merito e di quello ancor più emblematico del 1917 -l’abolizione della servitù della gleba, praticatissima nell’ordine zarista- nemmeno si parla.
Il contesto non era USA contro il Male (narrazione che gli Usa hanno riproposto, e spesso in torto, dal Vietnam all’Afghanistan). Si trattava semmai di una sveglia necessitata, popolare, collettiva e -anche se pure questo diciamo poco- tardiva: le potenze del globo di allora, per quanto meno interconnesso e meno “globale”, avevano a lungo sottovalutato e provato a tirar dalla propria fascismo e nazionalsocialismo. Le opinioni pubbliche nazionali scoprirono la lotta a guerra in corso; prima gli oppositori, neanche pochissimi, erano comunque complessivamente marginalizzati e perseguiti, o perseguitati.
Lo storico Ariel Toaff, prima di esser sommerso da insulti di ogni tipo, nello splendido volumetto “Ebraismo Virtuale”, aveva posto l’accento su un altro aspetto ancora, addirittura più scomodo e urticante: quanto la stessa elite ebraica almeno inizialmente si ritenne al riparo dalla persecuzione, quanto persino nei lager vi fossero documentabilmente episodi di sudditanza, connivenza e delazione. Da questo punto di vista, Auschwitz fu un gigantesco laboratorio di soggezione permanente: la soggezione vera, quella che si dà per negazione di soggettività. Bisognerebbe poi capire cosa fare per non rendere la Giornata della Memoria uno spezzone televisivo nel preserale. E su questa via riconosco, sarà un mio limite, una sola possibilità: una rivolta intelligente e critica alla disumanizzazione.
Ed è maledettamente difficile, perché il 1945 ha battuto UN esercito della disumanizzazione, ma non IL virus del suo contagio. Non é sterminio di popolo e strage di diritto la mattanza di senzatetto di tutte le fedi e di tutte le etnie a ogni maledetto inverno, come negli ultimi giorni ci hanno ricordato le associazioni del volontariato milanese e romano? Non è disumanizzazione sapere che gente muore a mare e il suo corpo sfama i pesci? E quanti col loro corpo, se giungono a destinazione, sfamano caporali, protettori, trafficanti di organi, bambini, pessime droghe e schiavi col sorriso vuoto? L’antidoto ad Auschwitz è forse il poeta della Grande Guerra, Giuseppe Ungaretti, testimone della trincea di un trentennio prima.
Lo ricordiamo ormai vecchio a legger in televisione, amante delle donne, curioso dell’America, così asciutto alla parola lirica che anche le maiuscole e le virgole gli si inchinavano. Tanto sincero da risultare involontariamente provocatorio, che parlasse di Iliade, omosessualità, socialismo o marijuana. Quel gigante chiuso, orso cattivo col berretto, versatore senza rima baciata, intrepido che ne visse di ogni solo due volte rischiò di impazzire: quando si suicidò l’amico degli anni francesci, Moammed Sceab, e quando morì travolto dalle febbri spagnole l’altro compare-brigante Guillaume Apollinaire. L’antidoto a ogni Auschwitz di ieri e domani è la donna e l’uomo che san sentirsi addosso lo sgomento di ogni vita perduta.