Attilio Demaria, un Campione del Mondo a Cosenza
Il Cosenza ha lanciato, anche nell’ultimo decennio, tanti calciatori. Giocatori che in riva al Crati hanno vissuto una o due stagioni di peso, prima di spiccare il volo. A volte per veleggiare nella stessa serie, ma in squadre più attrezzate, alle altre per fare il classico salto di categoria. Non è infrequente, ma è più
Il Cosenza ha lanciato, anche nell’ultimo decennio, tanti calciatori. Giocatori che in riva al Crati hanno vissuto una o due stagioni di peso, prima di spiccare il volo. A volte per veleggiare nella stessa serie, ma in squadre più attrezzate, alle altre per fare il classico salto di categoria. Non è infrequente, ma è più raro il fenomeno opposto, quello di grandi del football che nella terra dei Bretti svernano con eleganza, incontrando una piazza appassionata e in grado ancora di aver gratitudine per i suoi beniamini. Pochi ricordano che a Cosenza giocò un atipico campione del mondo, nato in Argentina da ascendenze italiane. Parliamo dell’ubriacante mezzala Attilio Demaria, porteño di Buenos Aires, classe 1909.
Un canovaccio classico di quegli anni: argentini nascevano da famiglie italiane trapiantate e andavano poi a giocare a pallone o a lavorare in Europa e addirittura in Italia e così avevano due patrie, doppia cittadinanza, passaporto e presenze in nazionale sia con l’Albiceleste sia con gli azzurri. Nella Capitale, gli italiani immigrati forgiano una lingua argentina nuova, mischiata di parole di genovese, piemontese, catalano, napoletano, persino termini del Mediterraneo arabo e dell’Atlantico portoghese. “Viandanti della risata coi chiodi negli occhi“, avrebbe detto Fabrizio De André, e questo mai dovremmo dimenticare di esser stati e almeno in parte di dover essere ancora.
Demaria irregolare lo è più con la testa, in un mondo che si vota al conformismo e all’esclusione, che non con le abitudini di gioco. Professionista che si mette al servizio della squadra: nei primissimi anni di carriera, con l’Estudiantil, squadra porteña per eccellenza, gioca addirittura prima punta. Atipico fino in fondo: bassetto, tracagnotto, golden boy solare, non teme lo stacco di testa, pur avendo elevazione modesta, la giocata di contropiede e lo scontro fisico leale. Incredibile uomo squadra anche in costruzione di gioco: amante del passaggio a smarcare più che del dribbling, campo in cui pure fu tra i migliori degli anni Trenta e Quaranta.
Finalista al Mondiale con due squadre: nel 1930 proprio in un’Argentina imbottita di italo-americani e ispano-americani, più italiana che oceanica, rintuzzata da un Uruguay volitivo e intrigante (per un paio di decenni detterà legge anche nel calcio sud-americano, andando poi a scemare rispetto alla crescita esponenziale dei brasiliani e degli stessi argentini, vittime illustri dei primi trionfi uruguagi). Nel 1934 stavolta vincente, con l’Italia di Pozzo e anche del regime fascista, che aveva fortemente voluto e ottenuto di ospitare e vincere i mondiali (nel 1936 i nazisti vollero portarsi in casa le Olimpiadi a Berlino e andò meno bene). Per un decennio, salvo un breve rientro a casa Estudiantil, è l’anima di una delle più belle Inter della sua storia.
Fa spesso coppia con Meazza, che rifornisce a getto continuo di assist invitanti e con cui riesce ad andare d’accordo quanto basta per mitigare le rispettive spigolosità. Non rinuncia a segnare Demaria, dodici reti l’anno in cui vince lo scudetto (1940), quattro apparizioni in Coppa Italia l’anno prima, quando alza il trofeo, pur senza marcature. In dieci anni, Demaria, ormai riposizionatosi centrocampista offensivo con vocazione alla regia e al contenimento degli avversari, va ben quattro volte in doppia cifra: un piccolo primato per il ruolo, visto che il suo raggio d’azione mano a mano indietreggia, da finalizzatore irregolare a timoniere raffinato.
In questo ricorda tanti leader o capitani storici del calcio argentino; giocatori tecnici e determinati che sul fine carriera acconciano il ruolo più che all’anagrafe alle esigenze di squadra (gente come Riquelme e soprattutto Veron sono ottimi esempi di questo sapiente, consapevole e compiuto adattamento creativo al rettangolo di gioco). Dopo i fasti dell’Ambrosiana-Inter, proprio nel periodo della Seconda Guerra mondiale, infila due annate in chiaroscuro, ma non da buttar via, a Legnano e a Novara.
Per blasone, tempi e ingaggi, sembra un miracolo quando nel 1946/1947 approda a un bel Cosenza fresco di B e con una squadra reinventata completamente rispetto ai bucanieri che avevano timbrato la promozione l’anno prima. Giocatore e allenatore, l’uomo che tutta la vita aveva fatto il pendolo gaudente, l’esteta di roccia a dettar l’assist giusto, la finta da bere, il gol di qualità, alle confluenze Demaria compie l’ennesima trasformazione: a volte scende apertamente in mediana, nella prima annata è la diga di una formazione compatta che si salva grazie a un fantastico girone di ritorno (“corsi” e “ricorsi”?).
L’anno dopo scende in campo una dozzina di volte; concreto e affidabile anche in pancaccia, traina una squadra perfettibile al decimo posto, ma per le astruserie dell’epoca non basta a evitare la retrocessione. Cala il sipario sul giocatore-allenatore che era divenuto pure scopritore di talenti, da vero socialista latino-americano, mettendo sotto la sua ala una formazione di allievi che i tifosi cosentini chiamavano orgogliosamente i “Demaria Boys”.
Cala il sipario: pochi scampoli da allenatore, in due squadre che in Argentina alimentano comunque una certa mitologia, il Club Brown di San Justo e soprattutto e prima il Gimnasia La Plata. Il Nostro muore nel 1990, nel popolosissimo borgo di Haedo. Terra di piccoli cottage, chiese, motel, strade che bruciano, caffetterie. La meravigliosa Avenida Rivadavia la congiunge, soprattutto a orario serale e notturno, al centro di Buenos Aires. E lì lo immaginiamo ciondolare, il generoso e responsabile genio rossoblu, ingannare traffico e luci, sempre sulla sua amata fascia sinistra.