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Codogno un anno dopo, l’anestesista paziente del 1: “Rivivo ancora ogni momento”

L’anno scorso, dopo mesi faccia a faccia con Covid-19, si era detta: “Il 20 febbraio 2021 vado una settimana ai Caraibi”. Invece sarà in Lombardia Annalisa Malara, 38 anni, l’anestesista che il 20 febbraio 2020, vedendo un suo coetaneo con “polmonite devastante” non rispondere alle cure e “peggiorare inesorabilmente” a una velocità insolita, ha deciso

Codogno un anno dopo, l’anestesista paziente del 1: “Rivivo ancora ogni momento”

L’anno scorso, dopo mesi faccia a faccia con Covid-19, si era detta: “Il 20 febbraio 2021 vado una settimana ai Caraibi”. Invece sarà in Lombardia Annalisa Malara, 38 anni, l’anestesista che il 20 febbraio 2020, vedendo un suo coetaneo con “polmonite devastante” non rispondere alle cure e “peggiorare inesorabilmente” a una velocità insolita, ha deciso di forzare il protocollo e disporre il tampone rivelatore: positivo a Sars-CoV-2. Sarà qui a ricordare come tutto è cominciato in un ospedale di provincia, a Codogno, prima zona rossa d’Italia.  

Il virus che sembrava così lontano, che aveva paralizzato una provincia della Cina industrializzata grande quanto il Belpaese, era già dentro le case degli italiani. Il coetaneo Mattia diventa il ‘paziente 1′ in suolo tricolore. “E’ passato un anno e per diversi aspetti mi sembra secoli fa, per altri mi sembra ieri – racconta all’Adnkronos Salute – Se ripenso a quella giornata mi sembra di averla così chiara in mente. Poi rivivo quello che ho passato, qualcosa di fantascientifico e terribile che rimarrà nella storia, e il tempo si dilata: è tutto così cambiato, abbiamo dovuto rinunciare a così tante cose, a libertà individuali, è pesato tanto. Mi manca andare a fare qualche giorno via, le cene con gli amici, i parenti. La libertà di muoversi e di stare in compagnia, di andare al mare, in montagna. Sogno le Dolomiti”, sorride.  

Quello che ha visto da rianimatore, dalla terapia intensiva ‘trincea’ della lotta a Covid-19, le fa sgranare gli occhi di fronte alle proteste di piazza. Le parole di negazionisti, no-mask, no-vax, sono pietre. “Io sono veramente scioccata da queste persone – confessa Malara – e spero fortemente siano una minoranza. Mi hanno spiegato che quando la paura raggiunge livelli massimi si ha un atteggiamento di rifiuto, in questo caso rifiuto della malattia, della sua gravità e di conseguenza del vaccino. Io gli direi che purtroppo non hanno visto coi loro occhi cosa può causare questo virus, come può ridurre una persona. Non i suoi polmoni, ma tutta la persona. Dire ‘non mi vaccino’ credo sia un atto di codardia, egoismo, noncuranza per la collettività, menefreghismo estremo”. 

Annalisa si è vaccinata e non si ferma. Un giorno è a bordo di un elicottero per il corso da ‘soccorritrice dei cieli’. A novembre, piena seconda ondata Covid, dal Policlinico di Milano informano che ha deciso di dare una mano all’ospedale in Fiera, l’hub di terapia intensiva nato per dare respiro alle strutture sanitarie travolte dai casi gravi: “Sapevamo che cercavano l’aiuto di medici e infermieri. Mi sono proposta – spiega – perché mi sembrava bello farlo, dopo il ruolo avuto in questa storia. Ricordo il primo mese con Covid: dei medici di Milano erano venuti a darci una mano, avevo un’ammirazione incredibile. Mi dicevo: in questo momento siamo l’occhio del ciclone della pandemia, la prima zona rossa fra tante aree ancora risparmiate. L’idea che qualcuno volontariamente s’infilasse in questa situazione di pericolo mi sembrava encomiabile”.  

“Quei medici – assicura – ci hanno dato tanta energia e ossigeno puro in momenti in cui c’era bisogno gradissimo di aiuto. Così sono andata in Fiera senza nessun dubbi. I miei hanno capito, hanno sempre rispettato le mie scelte. E’ stata una bellissima esperienza. I colleghi del Policlinico sono tra i migliori, ero nel ‘tempio’ della ventilazione meccanica, mi hanno insegnato tanto e mi hanno accolto come una di loro, a braccia aperte”. L’ultimo turno giovedì 28 gennaio (“ho portato da mangiare per ringraziarli”). Dopo qualche giorno di ferie, per Annalisa una nuova parentesi al San Matteo di Pavia, altra struttura protagonista della prima emergenza Covid. 

Tornando indietro ai giorni più neri, a volte si stupisce: “Quando mi dicevano ‘brava’” per il piccolo gesto di ‘ribellione’ al protocollo, “mi sembrava una cavolata quel che avevo fatto. In fondo era solo ciò che mi sembrava giusto. Poi nel corso dei mesi ho incontrato colleghi che mi hanno raccontato di essersi trovati come me davanti a casi sospetti, ma il protocollo non dava indicazione di fare il tampone. C’è chi ha discusso con i parenti che chiedevano perché no. Io mi sono solo detta: in Europa c’è segno del virus, io lo faccio lo stesso il test, non mi convince granché il fatto che non può essere Sars-CoV-2”. Cosa non ha funzionato? “Non credo sia stato un problema di protocollo miope – riflette Malara – E’ che noi lo conoscevamo poco questo virus e tutti i famosi asintomatici sfuggivano, non li potevamo vedere. Questo ha permesso che si diffondesse”.  

In realtà, continua Malara, “noi in ospedale vedevamo solo i casi più estremi. Ho ripensato ai giorni prima di Mattia, ad altri pazienti respiratori ricoverati. Un’altra volta mi aveva sfiorato il pensiero di Sars-CoV-2. Ma poi per quel paziente era arrivato il responso positivo per legionella. Avevamo un’altra causa, e fine. Tutti questi pazienti avevano un’altra spiegazione, un altro virus o batterio isolato”. Tutti tranne Mattia. Annalisa lo ha rivisto dopo mesi ai giardini di Lodi, con la moglie e la figlia piccolina. “Un giorno ho guardato il cellulare, mi aveva scritto un messaggio bellissimo in cui spiegava di non essersi fatto sentire perché non voleva risultare invadente. Mi ha fatto piacere leggere le sue parole. Ci siamo incontrati in estate, quando con l’epidemia in calo ci si poteva vedere. C’era anche sua madre che ha voluto ringraziarmi. Sono stata contenta per loro. Ogni tanto ci sentiamo ancora”.  

Dopo la diagnosi di Mattia, ripercorre Malara, “pensavamo si trattasse di quel paziente e della sua famiglia. Ma già nella notte fra il 20 e il 21 febbraio le persone arrivate con la stessa sintomatologia erano diventate 3-4-5. Tutti positivi, compreso un rianimatore che non stava bene da un paio di giorni ed era venuto in pronto soccorso. In poche ore più persone non collegate al primo paziente, tutte della stessa zona di Castiglione d’Adda, erano contagiate. Abbiamo capito che avevamo un grosso problema”.  

Dopo l’estate, di nuovo l’incubo. “Il sentore che ci sarebbe stata una seconda ondata l’avevamo – ragiona Annalisa – Eravamo più pronti rispetto a quando a febbraio ci ha colto totalmente alla sprovvista, ma la paura di ritrovarci nuovamente in una situazione del genere era tantissima. Poi per Lodi non è stata paragonabile”.  

L’epicentro si è spostato a Milano, Varese, Monza. Anche il resto d’Italia era più coinvolto. “L’abbiamo vissuta sempre male, ma in modo molto diverso da febbraio, quando non sapevamo proprio come trattare il virus. Intubavamo i pazienti, mettevamo i polmoni a riposo e stop. Oggi abbiamo armi in più, abbiamo imparato a gestire cortisone ed eparina, conosciamo l’evoluzione lunga dei casi critici. Inizialmente ci chiedevamo: che stiamo facendo? Questi malati non vanno né avanti né indietro. Ora sappiamo che possono stare anche mesi intubati, che questa manovra non va rimandata, e dal punto di vista psicologico siamo più preparati”. Malara tira le somme, tra la sofferenza per gli abbracci mancati, la consolazione di bere qualcosa a fine turno coi colleghi a distanza di sicurezza. E una cosa le resta nel cuore: “Qualche tempo fa è venuta una paziente che era stata ricoverata a Lodi, ha voluto rivedere insieme alla figlia noi e gli infermieri, che sono le figure più vicine ai malati. E’ bello quando li rivedi e stanno bene, sapere che sono rinati”.  

Fonte: AdnKronos

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