Presunzione di innocenza e processo mediatico: c’è una profonda differenza
Il ministro Cartabia ha dato una boccata di ossigeno a chi ha a cuore davvero la giustizia. E il processo mediatico non è diritto di cronaca.
«A proposito della presunzione di innocenza, permettetemi di sottolineare la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per un’effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale». Queste le parole del Ministro Marta Cartabia che hanno finalmente dato una boccata di ossigeno a chi, adeguatamente fornito di strumenti culturali – non necessariamente di matrice giuridica- e di buon senso, ha a cuore davvero la giustizia e l’accertamento della verità dei fatti.
Alla base di questa considerazione vi è, del resto, certamente il fenomeno ormai noto come “processo mediatico” che pone indebitamente in conflitto il diritto di cronaca ed i diritti di chi a vario titolo ha la sfortuna di venire macinato dalla macchina giudiziaria, sia in qualità di vittima, che di indagato prima e di imputato, poi.
Chiariamo subito un concetto: il processo mediatico non è esercizio del diritto di cronaca, ma una violenza non necessaria alla vita privata, alla riservatezza degli atti di indagine ed alla presunzione di innocenza che nuoce alla più importante istanza di imparzialità del giudizio. Chi subisce il “processo mediatico”, sia nelle ipotesi in cui questi sia poi riconosciuto colpevole, sia nell’ipotesi in cui sia riconosciuto innocente, vive una doppia “sofferenza” legalizzata e patita nel giudizio parallelo che viene celebrato su televisioni e giornali. Non dimentichiamo che il più delle volte, nel secondo caso, non c’è nessuna attenzione verso le scarcerazioni, non essendo previsto nessun obbligo di integrazione informativa da parte dei media, come ad esempio, la pubblicazione della sentenza di assoluzione.
Nel sistema italiano, poi, la situazione appare acutizzata quando si tratta di procedimenti che riguardano la violenza contro le donne ed i fatti di mafia, ai quali già immediatamente dopo (a volte anche prima) l’arresto dell’indagato, segue una debole tenuta del segreto istruttorio, nonostante gli obblighi di segretezza in fase di indagine ed il divieto di pubblicazione degli atti, con conseguente spettacolarizzazione delle vicende nei programmi televisivi. Il Ministro Cartabia ha parlato di “sponda” che a volte gli inquirenti cercano sui media per amplificare la forza delle accuse.
Probabilmente in alcuni casi è evidentemente così, ma quello che è sotto gli occhi di chi quotidianamente opera nelle aule di giustizia è che non tutti hanno la consapevolezza che la “pubblicità” della giustizia è una rappresentazione parziale e distorta di una realtà già molto difficile da accertare secondo le norme che regolano il processo penale. Figuriamoci attraverso servizi televisivi di una manciata di minuti, montati come si fa per una fiction e che costringono l’opinione pubblica a leggere le vicende giudiziarie in una luce innaturale.
Nonostante, dunque, la giurisprudenza insista nel ritenere che tali effetti non si ripercuotano sul giudicante, insensibile per sua natura e formazione alla pressione dei media, non è affatto rassicurante per chi vede la propria vita devastata da questo o quell’altro procedimento in corso, assistere in TV ad un costante inquinamento mediatico che baipassa i normali strumenti processuali anticipando la formazione della prova e distorcendo, inevitabilmente, la modalità attraverso le quali chi è chiamato a decidere – che resta un normale essere umano – ne acquisisce conoscenza.
C’è da dire che la problematica è stata evidenziata non solo dall’attuale Guardasigilli ma da tempo anche da molti operatori del diritto: magistrati giudicanti, inquirenti ed avvocati, preoccupati delle conseguenze di tale modo di agire sui diritti fondamentali dell’indagato/imputato, ma anche delle persone offese. Certamente però, a farne le spese, probabilmente a causa dell’evidente attuale impoverimento culturale, siamo noi penalisti, addirittura tacciati di essere in “combutta” con chi, ad ogni modo, risulta ancora un presunto innocente anche se attinto da gravi capi di accusa, solo perché esercitiamo la nostra funzione, espressione di uno dei più alti principi costituzionali: la difesa.
Quando si fanno talune offensive e grette affermazioni, si dimentica, infatti, che la difesa penale è un diritto irrinunciabile che scavalca il rapporto tra l’Avvocato e l’Assistito, poiché espressione degli stessi principi che fondano lo Stato di diritto. Il ruolo fondamentale del difensore nel processo penale, indipendentemente dal soggetto che assiste, sia che si tratti di un imputato ritenuto responsabile del reato più moralmente abbietto oppure della persona offesa vittima della condotta altrui, è infatti quello di assicurare la migliore tutela del rispettivo interesse, in modo che la decisione del magistrato sia conforme a giustizia.
Questo è il principio del nostro procedimento accusatorio, basato sulla dialettica ed il confronto di due parti processuali che taluni, inspiegabilmente, misconoscono essere pari difronte alla Legge: Avvocato e Pubblico Ministero. Se dunque la libertà di informazione e trasparenza dell’amministrazione della giustizia costituiscono irrinunciabili presidi della democrazia, allo stesso modo, la spettacolarizzazione della giustizia costituisce un fattore deformante che mortifica gravemente i diritti individuali dei soggetti a vario titolo coinvolti e che minaccia l’equità del processo e della pena.
È per questo motivo che gli Avvocati che hanno a cuore una seria, onesta, preparata, attenta e proficua difesa continueranno a ribellarsi di fronte ad azioni che minacciano il confronto e lo scontro equo tra accusa e difesa, senza il quale mancherebbe il presupposto essenziale di una corretta amministrazione della Giustizia. E continueremo ad insorgere nonostante gli strepiti di chi volutamente trascura che il perseguire un fine nobile – la sacrosanta lotta al crimine ad esempio – non giustifica la sommarietà del mezzo utilizzato – come un processo sbrigativo o mediatico – perché il garantismo è l’unico strumento di lotta per la tutela dei diritti di tutti in una società civile.