martedì,Ottobre 15 2024

E adesso andate via

Sabato, dopo il gol di Mazzitelli, ho spento (come molti) la televisione e sono andato a Empoli. L’occasione era un premio letterario, il Pozzale, e per raggiungere il Palazzo delle Esposizioni sono passato proprio davanti al Castellani. Lo stesso dove, un anno fa, un clamoroso 1-5 proiettò il Cosenza verso la salvezza. Un’impresa impossibile. E impossibile era

E adesso andate via

Sabato, dopo il gol di Mazzitelli, ho spento (come molti) la televisione e sono andato a Empoli. L’occasione era un premio letterario, il Pozzale, e per raggiungere il Palazzo delle Esposizioni sono passato proprio davanti al Castellani. Lo stesso dove, un anno fa, un clamoroso 1-5 proiettò il Cosenza verso la salvezza. Un’impresa impossibile. E impossibile era la parola chiave che uno degli autori premiati, Fabio Genovesi (bello il suo “Cadrò, sognando di volare”), aveva scelto per il dibattito.

Nel libro di Genovesi la storia del protagonista si intreccia con quella di Marco Pantani nel 1998. Anno memorabile, perché il Pirata vinse da outsider Giro e Tour. Quando gli ho chiesto perché proprio Pantani, Genovesi mi ha risposto così: “A noi uomini spesso fa comodo classificare i mondi: il lavoro, la famiglia, gli amici, lo sport. E invece il mondo è uno solo. È fatto di vita vera, che spesso diventa epica. A me non interessava Pantani in quanto ciclista, ma perché riuscì a fare qualcosa di impossibile. E, quando accade, questo incoraggia molti, come il mio protagonista, a fare altrettanto nelle loro vite”.

Per anni la mia squadra al Fantacalcio si è chiamata Galibier ’98. E, dopo più di due decadi, ho ancora i brividi quando Pantani taglia il traguardo.

Vedete: fuori da queste coordinate, a me dello sport non è mai importato nulla. Mi emozionerà sempre il gol di Marulla a Pescara, ma il punto è quello che mi ha incoraggiato a fare. Ogni volta che mi trovo nei tempi supplementari di qualcosa, senza energie, e mi ripeto se è scattato come un centometrista lui, ce la posso fare pure io.

Ora, se tifi per il Cosenza, sai che quel genere di emozioni sono centellinate. Ed è possibile che cercherai più facilmente ispirazione e coraggio nella last dance di Micheal Jordan, in Jonathan Edwards o nel barrilete cosmico di Maradona. Eppure, quando al posto loro c’è Tutino che attraversa l’Adriatico e fulmina Pane o Asencio che spizza con la suola un cross di D’Orazio e sigla il 2-1 al minuto 93, accadrà sempre qualcosa di più.

È l’impossibile che avviene a due passi da me. Nella squadra della mia città. Con la stessa maglia che indossavano i miei eroi da bambino. Pantani incoraggerà il 24enne di Forte dei Marmi come il 12enne di Noci, ma sarà niente rispetto a quello che farà il gol di Zampagna alla Salernitana per il ragazzino di Longobucco che ha convinto il padre a restare fino al fischio finale, anziché uscire cinque minuti prima per evitare il traffico.

Sarò retorico, e me ne assumo il rischio, ma se non capisci questo non puoi fare il presidente di una squadra di calcio. Non è necessario che tu lo condivida, ma devi comprendere che questo impossibile è il motore più forte, forse unico, per una delle province più grandi e più povere d’Italia. Sei obbligato a sentire la responsabilità di fare calcio e cioè che da te, presidente, dipende un pezzetto della più grande fabbrica locale dell’impossibile. Se invece, a soli tre anni da un ritorno in serie B atteso da 15, sei a un passo dalla retrocessione senza che il Cosenza abbia mai sfiorato (nemmeno per sbaglio) la metà sinistra della classifica, vuol dire che te ne devi andare.

Come Julio Batista, insomma. Ma lasciando i conti in ordine, gli stipendi pagati, i contratti rescissi e i soldi di Baez e Falcone a chi (possibilmente secondo lo schema del compianto presidente Carratelli: nessun uomo solo al comando, perché al Sud gli imprenditori sono abituati a comandare coi soldi pubblici) prenderà il suo posto.

Vedete, c’è solo una cosa più avvilente di vedere giocatori “poco motivati” (Trinchera dixit) (chissà, magari è colpa della piazza senza appeal…) perdere tre partite, subendo 7 gol senza segnarne uno nella fase decisiva del campionato. Ed è farlo da soli. Io con i miei figli, i miei amici tra Lugano, Terni, Eboli e Cosenza con i loro. Ognuno a casa propria, come pandemia prescrive (salvo i “rischi calcolati”). Il calcio mi ha fatto vivere molti dolori, ma una bordata di fischi, un coro sugli spalti, il semplice silenzio uscendo dai boccaporti è sempre stato l’inizio della loro fine. Il principio di una contestazione, a volte. Che oggi non risparmierebbe nessuno.

Certo, il Cosenza può ancora salvarsi, almeno passando per il playout: basterebbe fare un punto in più dell’Ascoli da qui alla fine. E, dopo lo stop al campionato, ha 15 giorni di tempo per ritrovare le motivazioni. Il problema è un altro. È aver mandato in vacca, ad oggi, un impossibile (il 16 giugno, il 31 luglio) sul quale era doveroso costruire cattedrali. È, per il presidente Guarascio, aver confermato un allenatore giovane, emergente alla guida del Cosenza, senza affidargli una squadra adatta alle sue caratteristiche di gioco e che gli permettesse di crescere come tecnico. È aver fatto un calciomercato invernale ai confini col codice penale (Trinchera), altro che da “miglior ds della serie B”. È aver accettato qualsiasi condizione, in nome del peggior aziendalismo, per conservare la poltrona (Occhiuzzi), sbagliando cocciutamente uomini e modulo.

“Rubo” al peraltro direttore Piero Bria questa grafica. Se analizzi le partite, conosci questi dati e non cambi nulla, vuol dire che la tua crescita, come allenatore, si è fermata.

La verità è che nessun allenatore ha avuto nella storia del Cosenza la forza contrattuale del Principe. All’inizio del campionato scrissi che Guarascio questo è, bisognava spingerlo a cambiare. Più impossibile di Pantani sul Galibier, vero. Ma ve l’immaginate cosa sarebbe successo se Occhiuzzi, almeno a gennaio, fosse andato dal presidente con due fogli, dimissioni o lista degli acquisti?

La verità invece è che è stato bello sentirsi dare del “predestinato” da un calciatore come Tremolada e illudersi che, con un po’ di tocchi di suola e il solito cross letale sul secondo palo, si sarebbe sfangata anche stavolta. E chissà, magari la sfangheremo. Ma a che prezzo? Quale impossibile ispira il ragazzo di Longobucco agli sgoccioli di questa stagione 20/21? Nessuno. L’aziendalismo di Occhiuzzi, di chi cioè da ex calciatore, tifoso e uomo legato a questi colori doveva essere la maggiore garanzia di un progetto, e le mani in tasca di Trinchera (le valigie a Lecce gliele porta Leandro Greco) sono lo specchio di un altro impossibile. Quello che, da secoli, rende Cosenza immobile come un pachiderma. È impossibile, dunque non si può fare. Impossibile trattenere Asencio o riportare Casasola, Tutino e Palmiero, impossibile rinnovare i contratti di Lamantia, Perina e Dermaku. Molto meglio fare con Nzola il solito “giochino” del fax con 20mila euro in meno, perderlo e poi vederlo pascolare sui campi della serie A. L’impossibile come condanna, insomma, che cancella l’impossibile come stimolo.

Anni fa al mare, nel condominio in cui vivevo, avevamo un giardiniere. Si chiamava Pasquale. Mi ricorda molto il presidente Guarascio. Pasquale non annaffiava mai i prati e le siepi. Professo’, diceva a mio padre indicando il cielo ogni santo giorno, non lo vedete che è nuvolo? Tra un po’ piove. Invece non pioveva mai. In compenso portava moglie e figli a fare il bagno in piscina. Sarebbero rimasti lì a vita. Finché qualcuno non ebbe il coraggio di dirgli in faccia e adesso andate via.