martedì,Ottobre 15 2024

Ancora qua siete?

Al minuto 85, al telecronista di Dazn scappa una di quelle frasi fatte che non andrebbero mai dette: “Occhiuzzi guarda l’orologio: a questo punto è il tempo il vero nemico del Cosenza”. La verità è che l’intera gara giocata dai rossoblù a Lignano Sabbiadoro è la prova che, in tutta la stagione, il vero nemico

Ancora qua siete?

Al minuto 85, al telecronista di Dazn scappa una di quelle frasi fatte che non andrebbero mai dette: “Occhiuzzi guarda l’orologio: a questo punto è il tempo il vero nemico del Cosenza”. La verità è che l’intera gara giocata dai rossoblù a Lignano Sabbiadoro è la prova che, in tutta la stagione, il vero nemico del Cosenza è stato se stesso.

Nemmeno quando erano retrocessi sul campo nel 1997 e nel 2003, i Lupi avevano fatto così pochi punti. Se avessero almeno centrato la quota 46 dello scorso anno, a quest’ora sarebbero salvi in carrozza. Nelle ultime sette, decisive partite, la squadra di Occhiuzzi ha segnato tre reti, tutte in una sola occasione, contro un avversario arreso – e questo la dice lunghissima sulla povertà di strategie di un tecnico avvizzito di fronte alla prima, vera grande chance della sua giovane carriera e di una squadra che, continuo a pensare, allenata diversamente avrebbe potuto centrare la terza permanenza senza patemi in questa serie B.

Tengo a precisarlo, non perché creda che Occhiuzzi sia l’unico responsabile. Ho scritto più volte, e questo blog ne è testimone, che mai come quest’anno u pisci puzza d’a capu. Pieno di azzardi il mercato estivo (ma della scommessa Petre ce ne siamo già dimenticati?), da carestia e retrocessione programmata quello invernale (Mbakogu, e non dico altro). Dunque colossali colpe del ds Trinchera e del presidente Guarascio. Quella alchimia a volte fortunosa, che aveva portato a costruire l’organico della promozione nel 2018, si è sciolta gradualmente per mancanza di fiducia e incompetenza. Raramente ho assistito a harakiri più clamorosi.

Detto questo, per averlo difeso a lungo, sono costretto ad ammettere che, per vari motivi, molte colpe ricadono su Roberto Occhiuzzi. Non era la prima volta che un allenatore, su questa panchina, si trovava costretto a spingere giocatori molto oltre i propri limiti. Napolitano, per dire, due ferri da stiro ai piedi, fu convinto a giocare a zona da Silipo. Reja, nell’anno della promozione sfiorata a Lecce, aveva sì Marulla, Biagioni e Compagno, ma pure Angelo Deruggiero nel ruolo di libero (una carriera tra C1 e C2 con Trani e Ternana) e Claudio Maretti (stopper titolare per metà campionato, che la B non l’avrebbe mai più vista in carriera). Quando vi raccontano la storia del fortissimo Cosenza di Giorgi, sappiate che erano tutti o quasi esordienti in B. E che quasi lo stesso organico, l’anno dopo, rischiò la retrocessione. Il Cosenza, spesso, l’hanno fatto forte gli allenatori, trasformando incompiute in talenti. Anche per una sola stagione e facendo di necessità virtù.

Perché un vero allenatore non si vede dai gol di Balotelli che entra dalla panchina, ma dai Maleh che è riuscito a far esplodere (Zanetti), dagli Eramo rimessi al centro di un progetto (Sottil). Non dalle figurine che ha collezionato e dalle loro frasi vuote a metà partita (“Stiamo giocando solo noi, ora segnamo”, ha avuto l’impudenza di dire Tremolada nell’intervallo) e dai giovani tenuti in panchina a marcire (Sueva, Bouah, eccetera), ma da quelli a cui ha permesso di esprimere il loro, seppur piccolo, potenziale.

Penso alla fame che aveva Cristiano Lucarelli, nel 1995, quando vestì il rossoblù con Mutti in panchina. Io questa fame non l’ho vista in nessuno degli uomini scesi in campo a Lignano Sabbiadoro (eppure, solo a vedere quello stadio accanto all’Acquapark che rischiava di restare in B, a me sarebbe salito il sangue agli occhi). Lucarelli, invece, quando ho visto il quartiere in cui viveva da ragazzo, Shanghai, l’ho capita tutta la sua fame. E, come una premonizione, ho sentito tutto il suo dolore, l’altro giorno, esternato via social per la retrocessione e la (ahimè, molto probabile) scomparsa del Livorno.

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“Ciao amore mio… Che cosa ti hanno fatto? Come si sono permessi? Ma lo sanno chi sei?”. Beh, non so voi, ma io già dopo le prime tre righe ho gli occhi lucidi.

Lucarelli arrivò a Cosenza accompagnato dalla fame di goleador nel campionato Primavera, nell’ambito della cessione di Negri al Perugia, e dalla solita litania s’era buanu n’u davanu a nua. Come molti rossoblù, quest’anno. Ma Lucarelli era talmente buanu che a vent’anni fece 15 gol al suo esordio in B. E non li fece solo perché era buanu, ma perché qualcuno buanu ce l’aveva fatto diventare (Mutti). Mettendolo sotto l’ala protettrice di Gigi Marulla, per esempio.

Ancora qua state? Avete avuto l’onore di giocare in un posto che porta il nome di Gigi Marulla, di vestire la sua stessa maglia e ancora qua state? In tutto il campionato avete vinto solo tre partite in questo stadio e ancora qua state? Sedici gol subiti nelle ultime sette, decisive gare di campionato e ancora qua state? Una partita da veri lupi (quali lupi? Si sciacqui la bocca, prima di nominare il simbolo di questa squadra) e ancora qua state? La mia storia parla per me (quale storia? Chi la conosce? Da dove viene?) e ancora qua state? Questa piazza non ha appeal (se non, ovviamente, per piazzare un contratto agli amici degli amici) e ancora qua state? Come vi siete permessi? Ma lo sapete davvero chi siamo?

Io sono entrato in quello stadio quando si chiamava ancora solo San Vito, a sei anni, mano per mano con mio padre. Ci sentivamo talmente al sicuro, in quel posto, che papà mi lasciò solo in mezzo alla gente in tribuna quando dall’altoparlante il mitico Carchidi disse che era desiderato in sala stampa (si era portato dietro le chiavi di casa e mamma aveva lasciato la pentola sul fuoco).

Mio padre che, quando tornai da Verona nel 2001 dopo aver perso col Chievo e visto sfumare ancora una volta la serie A, mi aspettò sveglio, a notte inoltrata, solo per vedermi arrivare, sul divano con la tv accesa. E dirmi quello che io dico ora a voi: Ci proveremo un altr’anno. Perché noi non moriremo mai.

Ma ci proveremo fissando delle regole inderogabili. La prima è che devono sparire tutti. Nessuna seconda chance, dopo aver programmato una retrocessione così avvilente. Il modello Borlotti: chiamare Oronzo Canà in panchina (e quanta fiducia gli è stata data, a questo Canà, davvero ne avevamo fatto un eroe) e incassare il paracadute. Quanta insopportabile, collettiva e connivente meschinità.

E ancora. In una città che ha dimostrato di avere la peggiore classe imprenditoriale del Paese, qualsiasi nuovo proprietario dovrà lasciare una quota di azionariato popolare ai tifosi. Fosse anche una sola, simbolica azione. Perché, quando ci sarà da garantire un biennale a Raffaele Schiavi, ci dev’essere qualcuno di fiducia dentro a capire perché e percome. Pronto a dirlo ufficialmente alla città. Solo allora saremo liberi, all’inferno o in paradiso che sia.

E ancora. Con l’idea di costruire calcio, non di impingere a qualcuno il Cosenza come se fosse un giochino da quattro soldi. Il calcio è una cosa seria. È una fabbrica di sogni. È un’industria che può dare e attrarre lavoro. E sappiate che cadere nell’errore di affidare il giochino ai soliti noti, quelli che il Cosenza l’hanno già distrutto, è peggio che andar di notte, come diceva mio padre.

E mio padre diceva anche un’altra cosa. La diceva quando era molto deluso e, uscendo dallo stadio, faceva la croce. Passava del tempo e poi ci tornava. Ecco, io ora sono fuori dal Marulla e sto facendo la croce come lui. Andate via tutti. Ancora qua state? Oppure credetemi che, di gente che fa la croce, stavolta ne vedrete più di quante possiate immaginarne.