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Lettera di Monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio

La XVI edizione della Settimana della comunicazione, organizzata dalle Paoline e dai Paolini, è occasione quanto mai propizia per far risuonare in noi l’invito formulato dal Santo Padre il 24 Gennaio scorso, con il suo Messaggio per LV Giornata mondiale per le comunicazioni sociali, nella memoria di San Francesco di Sales: «Vieni e vedi» (Gv 1,46), che

Lettera di Monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio

La XVI edizione della Settimana della comunicazione, organizzata dalle Paoline e dai Paolini, è occasione quanto mai propizia per far risuonare in noi l’invito formulato dal Santo Padre il 24 Gennaio scorso, con il suo Messaggio per LV Giornata mondiale per le comunicazioni sociali, nella memoria di San Francesco di Sales: «Vieni e vedi» (Gv 1,46), che si celebra Domenica 16 Maggio 2021.
L’indicazione di Papa Francesco – fare della comunicazione un’espressione dell’incontro, delle parole una traduzione dei volti – ci sembra suonare oggi, nel tempo dei confinamenti e dei distanziamenti sociali, quasi come una beffarda provocazione. La prossemica dell’incontro («vieni») e la sua epifania («vedi»), cui Filippo, nel primo capitolo del Vangelo di Giovanni, invita Natanaele, testimoniandogli il suo stesso essere andato e aver visto, rischiano oggi di rientrare per molti di noi nel novero delle interdizioni a causa delle misure igienico-sanitarie straordinarie richieste dalla pandemia.
Sempre più, il nostro «venire» è limitato a fattispecie previste da un’autocertificazione e il nostro «vedere» è mediato da schermi e connessioni digitali.

Vieni e vedi

Come restare fedeli, allora, all’invito «vieni e vedi», persino nel tempo pandemico della mobilità “a scartamento ridotto”?
Vorrei suggerire di cogliere nel messaggio del Pontefice – e nel versetto di Giovanni che cita – un nòcciolo teologico, che resiste persino alla privazione della corporeità dell’incontro, cui oggi siamo molto spesso nostro malgrado costretti. «Vieni e vedi» diventa, così, una chiamata a istruire le nostre parole, la comunicazione, l’informazione allo stile dell’essenzialità; a depurarle dall’abuso delle illazioni; a disabituarle alla logica del «sentito dire». «Vieni e vedi» diventa un suggerimento di attesa e di sobrietà, un pudore dell’eloquenza fine a se stessa. «Vieni e vedi» può diventare finanche, per chi è operatore abituale (e talvolta un po’ disinvolto) della parola, un invito al silenzio.
«Si parte dal silenzio e si arriva alla carità verso gli altri»: questo bel compendio dei Cinque chicchi di riso di Santa Teresa di Calcutta, recentemente proposto dal Santo Padre, ci dà la dimensione di una mobilità altra, diversa da quella fisica, che può impegnarci a «venire e vedere» nel tempo della pandemia.
Si può «venire» dal silenzio alla parola, facendo di quest’ultima solo il traguardo di un cammino in cui impariamo a misurare il nostro discorso; e si arriva, infine, a «vedere» l’altro con le lenti della carità, di un incontro che, per quanto incorporeo, custodisce l’essenzialità e l’autenticità del volto. Quello del silenzio – e del silenzio come forma di carità – è un tema su cui il Santo Padre è tornato molto di frequente negli ultimi tempi, in contrapposizione al «piccolo linciaggio quotidiano del chiacchiericcio» e alle parole usate come «spade e proiettili».
D’altronde, l’invito alla sottrazione di parole, alla ricerca di una maggiore essenzialità e sobrietà nella comunicazione, pone questa nostra riflessione in diretta e feconda continuità con il Messaggio per la memoria di San Francesco di Sales dello scorso anno: Dalla cultura dell’aggettivo alla teologia del sostantivo.
Nel mezzo, l’interminabile sfilata silenziosa dei convogli militari adibiti a carri funebri a Bergamo. Nel mezzo, il silenzio iconico e potente del Pontefice nella benedizione Urbi et Orbi del 27 Marzo scorso, in una Piazza San Pietro deserta: ricordate le sue parole, “fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi”.
Nel mezzo, ancora, il silenzio delle solitudini quotidiane di tanti: il silenzio di chi è costretto al telelavoro, interrotto solo dai click e dal battito delle dita sulla tastiera; il silenzio di adolescenti e docenti, separati da una Didattica a Distanza in cui le parole spesso si perdono nella velocità della fibra ottica, non riuscendo a tessere più relazioni; il silenzio delle camere asettiche delle terapie intensive, in cui risuona solo la flebile speranza del ritmo regolare di respiratori polmonari e monitor cardiaci; il silenzio, infine, immensamente meno grave ma ugualmente significativo, di stadi di calcio senza cori ed esultanze, stadi in cui adesso echeggia persino il suono della palla presa a calci e con essa il sentimento della vanità di quel che rimane del gioco felice di un tempo.
Nel mezzo di questi mesi, insomma, abbiamo conosciuto un aspetto ben più drammatico e desolante del silenzio. Abbiamo conosciuto quel silenzio che è perdita della Parola, perdita dell’Incontro, perdita della Festa. Continuiamo a sperimentare un silenzio di privazione e di assenza, un silenzio che è afonia del Bene.
Ci sembra distante e anche un po’ astratta la possibilità di ritrovare un silenzio abitato dalla presenza, un silenzio in grado di parlare al nostro cuore e alla nostra intelligenza e di farvi germogliare parole di grazia, quel silenzio, insomma, che evoca il sibilus aurae tenuis con cui Dio si manifesta a Elia sull’Oreb (1Re, 19, 12).
Come tornare, allora, a far parlare il silenzio? Come fare del silenzio un’opportunità di incontro?

La fatica del discernimento

Una prima traccia ho provato a suggerirla a proposito dell’esperienza del Coronavirus già alcuni mesi fa, proprio a margine dell’invito al silenzio di Papa Francesco: occorre recuperare un’autentica etica della parola, fondata sulla responsabilità. L’esperienza dell’assenza ci abitua a cogliere la delicatezza delle parole, il loro peso. Siamo allora innanzitutto chiamati a riflettere sulle parole che esprimiamo, sulle parole che scegliamo, per la loro gravitas, per la capacità che hanno di incidere sulle cose e sulla vita delle persone.
È un vero e proprio esercizio di ascesi sapienziale quello che ci attende, come ha sottolineato ancora il Papa: “In un’epoca in cui la falsificazione si rivela sempre più sofisticata, raggiungendo livelli esponenziali (il deepfake), abbiamo bisogno di sapienza per accogliere e creare racconti belli, veri e buoni. Abbiamo bisogno di coraggio per respingere quelli falsi e malvagi. Abbiamo bisogno di pazienza e discernimento per riscoprire storie che ci aiutino a non perdere il filo tra le tante lacerazioni dell’oggi; storie che riportino alla luce la verità di quel che siamo, anche nell’eroicità ignorata del quotidiano”.
Sapienza, coraggio, pazienza e discernimento: in queste quattro istanze così ben delineate dal Santo Padre potremmo riassumere l’essenziale dell’etica della parola che occorre costruire. Permettetemi di sottolineare particolarmente l’ultimo di questi quattro concetti, il discernimento, perché rappresenta forse il compito più difficile che ci si presenta oggi, specialmente al cospetto della mole caotica e incontrollata di messaggi diffusi mediante i social network.
Una mole di parole che – badate bene – non contraddice affatto quell’esperienza del silenzio da cui siamo partiti, anzi la conferma: perché se è vero che oggi è sufficiente un account su un qualsiasi social network per ritrovarsi sommersi da un profluvio di espressioni verbali, nondimeno sempre più spesso, in questo naufragio di comunicazioni virtuali, ci scopriamo poveri di parole autentiche, poveri di senso, poveri di voce. È nel chiasso, nel fragore anarchico e senza direzione, che ci assale il cattivo silenzio, quel silenzio che ci fa avvertire di non avere voce, di non essere in grado di chiamare né di udire alcuna chiamata, quel silenzio desolante che ho appunto definito “afonia del Bene”.
Ed ecco allora che nella sfida del discernimento delle parole – potremmo dire dell’udito selettivo, che è poi il significato del verbo ascoltare – in questa sfida del discernimento e dell’ascolto sta infine la “fatica” del comunicatore etico. E dico qui “fatica” proprio nel senso che questa parola assume nei nostri vernacoli meridionali, come anche in alcune lingue romanze come quella francese: travailler – travagliare, faticare, nel senso proprio di lavorare.

La crisi delle parole

Fare della comunicazione un lavoro significa non temere la fatica di selezionare le parole. Giornalisti ed esperti della comunicazione lo sanno molto bene: il dire è sempre uno scegliere. Ogni virgola, ogni maiuscola, ogni accento modificano il peso delle nostre parole.
Quando parlo, quando scrivo, è innanzitutto una scelta quella che sto operando: la scelta tra cosa raccontare e cosa omettere, la scelta tra l’allusione e la denuncia, la scelta tra la propaganda gratuita e l’analisi critica. Uno dei modi più efficaci per rendere il verbo “scegliere” in greco antico è κρίνω, che ha la stessa radice del nostro termine crisi: la scelta, in effetti, comporta sempre un’inquietudine decisiva, perché chiama in causa la nostra libertà, la nostra possibilità di distinguere, di separare, di dire questo sì e questo no.
Ecco allora che emerge il fondamento di quel discernimento, di quella responsabilità comunicativa, di quell’etica della parola che il richiamo del Papa al silenzio ci mette davanti: dobbiamo scegliere quel che merita di essere detto. Ancor più in questo tempo di distanze e silenzi forzati, siamo chiamati ad attraversare ogni giorno la crisi delle nostre parole, a fare delle nostre parole un luogo di elezione dal silenzio.
Il professionista della comunicazione che vive questa crisi e il travaglio che comporta, è colui che assume su di sé l’impegno della chiarezza, che rifiuta il compromesso ambiguo del “si dice”, l’impersonalità e l’anonimato irresponsabile che il grande filosofo tedesco Martin Heidegger definiva appunto das Gerede, la “chiacchiera”.
Abitare la crisi delle parole significa dire “in queste parole ci sono io, ci metto la faccia, ne va della mia persona e della mia dignità”. Ecco che l’invito al silenzio matura qui nell’incontro dell’altro, del volto. In questa crisi è l’epifania del Volto a imporsi: il volto di me che parlo, il volto di colui del quale parlo, il volto di colui al quale parlo. Non c’è relata refero, non c’è rinvio alle fonti che tenga: «sia il vostro parlare sì, sì; no, no» (Mt 5, 37). È l’Io che emerge, irremissibile, nell’atto di separare il detto dal dicibile, il suono dal silenzio.
In altri termini, è innanzitutto l’atto del dire ad essere in gioco in questa de-cisione che prende corpo nel silenzio. La scelta delle parole è, primariamente e sopra ogni cosa, la scelta di parlare.

Tre parole sul parlare

Su questo atto del dire, generato dalla crisi delle parole di cui facciamo esperienza nel silenzio, vorrei soffermarmi ancora per un momento. Per cogliere il suo valore, mi sembra molto istruttiva la lettura di alcuni versi della poetessa polacca premio Nobel per la Letteratura Wisława Szymborska: “Quando pronuncio la parola futuro, la prima sillaba già va nel passato. Quando pronuncio la parola silenzio, lo distruggo. Quando pronuncio la parola niente, creo qualche cosa che non entra in alcun nulla”.
Futuro – Silenzio – Niente: sono queste, secondo la poetessa, “Le tre parole più strane”, vale a dire quelle parole che in qualche modo fanno il contrario di quanto sembrano promettere.
Perché cito questi versi? Ad un primo sguardo, potrebbe sembrare che essi ci suggeriscano un’idea intrinsecamente ingannatrice del linguaggio. Come a dire che saremmo imprigionati in un codice di falsità, obbligati a farci portavoce di fake news. Tuttavia, il particolare che più mi ha colpito, scorrendo questi versi, è il verbo che ricorre per ben tre volte: pronunciare. È vero che le parole sembrano tradire se stesse, ma ciò avviene solo quando esse vengono pronunciate.
C’è qui, mi sembra, una grande lezione sulla crisi delle nostre parole: esse non sono mai semplicemente quello che sono; sono quello che noi facciamo dire loro. Quante volte siamo tentati di far parlare i non detti, di lasciare che le nostre intenzioni si leggano “tra le righe”… Facciamo dire alle parole ciò che esse, apparentemente, non direbbero. E di contro, quante volte capita di difendersi dalle accuse per insinuazioni o allusioni malevole, trincerandosi dietro una presunta oggettività delle parole utilizzate, una sorta di realismo linguistico, un pilatesco quod scripsi, scripsi?
Nell’uno come nell’altro caso, ci nascondiamo dall’obbligo di restare fedeli alle nostre parole, dalla responsabilità di far coincidere il dire con il detto, l’intenzione con il discorso. Ma le parole non sono mai solo parole. Non sono lettera morta.
L’ Annuncio Buono, il Vangelo, funge da paradigma in questo senso. Come ha scritto il Santo Padre Benedetto XVI, “il messaggio cristiano non era solo “informativo”, ma “performativo”. Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita”.
Un atto linguistico performativo, come sapete, in base alla teorizzazione che ne ha proposto il filosofo inglese John Austin, è un’espressione che, quando la pronunciamo, realizza, fa quel che dice. Quale stupenda definizione per il Vangelo! E tuttavia, non dovremmo forse abituarci a considerare tutte le nostre parole, tutto quello che diciamo e scriviamo, non più soltanto come informazioni, bensì anche come capaci di performare, di plasmare la realtà?
Se, pronunciate, le tre strane parole della poetessa finiscono per autocontraddirsi, ciò avviene perché nell’atto del pronunciare, nella nostra presa di parola, in questo nostro atto di libertà è racchiuso il potere massimo di lasciare segni, di imprimere significati, di trasformare la vita. Eccolo, il nucleo della nostra responsabilità: parlare porta con sé il potere di creare come di distruggere, di confermare come di negare i segni stessi attraverso i quali comunichiamo.
Credo sia essenziale, oggi più che mai, riconoscere questo potere, denunciare come esso possa costituire tanto una forza generatrice quanto una tentazione di autoreferenzialità. Tra questi due poli, la generazione di senso e l’autoreferenzialità dell’interesse, è posto in tensione il potere di chi parla, e ancor più il potere di chi è professionista della comunicazione.
Come ogni potere, esso è benefico quando non si avvita su se stesso, quando mette in relazione, quando circola e vivifica un tessuto comune. Affinché ciò avvenga – consentitemi questa metafora sonora – occorre che il potere della parola sia intonato alla responsabilità che accompagna, come una melodia, la nostra vita. Vorrei dunque, in conclusione, provare a suggerire tre di questi “toni” sui quali armonizzare le nostre parole, ricalcando esattamente i tre strani termini evocati da Wisława Szymborska

La prudenza del futuro anteriore

Quando pronuncio la parola futuro, la prima sillaba già va nel passato
Il primo tono è la prudenza e si ricollega all’ambiguo movimento della parola “futuro”. Ogni futuro annunciato è un futuro passato. Molto meglio di me, chi è professionista dell’informazione – in particolare i giornalisti della “vecchia cara” carta stampata – sa quanto questo sia vero: si scrive immaginando il lettore dell’indomani, immaginando cioè un lettore che sarà immancabilmente “più avanti” di me che scrivo.
Cosa comporta questa cronica precocità delle parole? Che l’annuncio può essere certo profezia, ma molto più modestamente, sulle nostre labbra, si espone anche alla possibilità della smentita. Questa consapevolezza non deve indebolire le nostre parole, ma restituirle alla prudenza che deriva dalla loro fallibilità. Non siamo infallibili!
Sempre, quando raccontiamo la vita e ritraiamo i suoi protagonisti, corriamo il rischio di usare l’inchiostro sbagliato. Consegniamo questa nostra fragilità a coloro ai quali portiamo la parola, non nascondiamola. È nella stessa fragilità, infatti, non nell’eroismo indefettibile del preveggente, che si innesta anche la possibilità della profezia.

La speranza silenziosa delle eterotopie

Quando pronuncio la parola silenzio, lo distruggo
Il secondo tono che vi propongo è la speranza, e vorrei legarla ancora una volta al silenzio. Fin quando ci sarà qualcuno che dice il silenzio, che lo descrive, che lo denuncia all’occorrenza, il silenzio non sarà mai solo silenzio, non sarà mai un silenzio solo.
È in questo modo che immagino oggi il ruolo dei comunicatori quali portavoce della speranza: raccogliete, ascoltate, amplificate i tanti silenzi intorno a noi! Restituite dignità alle voci negate, accrescete il volume dei lamenti soffocati, garantite il recupero delle parole mai dette. È questa la forza della speranza: non il rimando astratto a soluzioni ideali ma irrealizzabili, bensì la ricerca delle possibilità di Bene che lievitano già nel presente.
La speranza richiede che si ascolti chi non ha voce o amplificazione. Non è un pensiero dell’utopia (il non-luogo), ma una pratica dell’eterotopia (il luogo-altro). Se non sapremo ascoltare i silenzi intorno a noi non riusciremo mai a realizzare luoghi-altri.

Una fiducia da niente

Quando pronuncio la parola niente, creo qualche cosa che non entra in alcun nulla
Infine, vi chiedo di intonare il potere delle vostre parole alla fiducia. Prima ancora che alla fede che illumina i nostri cuori, alla fiducia in quanto di buono, di bello, di giusto c’è intorno a noi. È facile, tanto più in questi mesi, tanto più in questi giorni così particolari in questa nostra terra di Calabria, lasciarsi prendere dallo scoramento, dal nichilismo, dalla tentazione di mollare la presa.
Eppure non possiamo smettere di riconoscere la presenza di qualcosa in cui continuare a credere e per cui continuare a lottare, una presenza viva che ci interpella.
È il segreto di ogni nichilismo, quello che Szymborska svela: non può esserci un ni-ente senza che ci sia un ente; non vi è negazione che non presupponga un dato positivo; non vi è morte che non delimiti una vita. Se sappiamo indignarci per la corruzione, per la violazione, per il sopruso che deturpano il volto della nostra realtà, a maggior ragione non possiamo sottrarci a raccontare le ragioni della sua bellezza.
Prudenza, speranza e fiducia: potremo coltivare quest’armonia solo se sarà l’amore – l’amore che siamo, l’amore che riceviamo, l’amore di cui siamo capaci – a parlare attraverso le nostre parole. Solo per ciò di cui siamo innamorati vale la pena di osservare la prudenza dell’incontro, di nutrire la speranza, di accordare fiducia.
Vi auguro di attraversare la crisi delle vostre parole con questa consapevolezza. Anche i silenzi, allora, grideranno dai tetti.
Francesco Savino
Vescovo di Cassano all’Jonio