La città retrocessa
Alcune città esprimono una grande vivacità e un forte senso di solidarietà senza aver mai avuto tradizioni sportive particolarmente vittoriose. Ad Amburgo il St. Pauli è una vera e propria istituzione sociale, promuove reti cooperative, è tifato rumorosamente negli stoccaggi al porto, nelle birrerie, persino tra i migranti asiatici che hanno conosciuto i suoi ultras
Alcune città esprimono una grande vivacità e un forte senso di solidarietà senza aver mai avuto tradizioni sportive particolarmente vittoriose. Ad Amburgo il St. Pauli è una vera e propria istituzione sociale, promuove reti cooperative, è tifato rumorosamente negli stoccaggi al porto, nelle birrerie, persino tra i migranti asiatici che hanno conosciuto i suoi ultras e calciatori. Le squadre di Berlino non hanno mai combinato granché, ma Berlino negli ultimi trent’anni ha lanciato tendenze importanti nella musica, nel graffitismo, nella fotografia. Nella Parigi degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, il PSG aveva molto meno successo delle barricate studentesche o delle lezioni di Foucault. Negli anni Zero, tutte e due le squadre di Genova hanno avuto le loro afflizioni tra serie B e serie A, ma Genova restava una delle città più belle e vive d’Italia. Questo per dire che respingiamo al mittente ogni equazione tra una squadra che alza trofei e una città in salute.
Vale anche il contrario. A fine anni Novanta-inizio Duemila, Lazio e Roma furono per un paio di stagioni le vere e belle regine del calcio italiano, ma tra Giubileo, crisi di giunta e scollamento nelle periferie si preparava quel nuovo sacco di Roma di cui ancora l’Urbe porta gravissime ferite e cicatrici. Non ce ne vogliano i tifosi di realtà piccole come Chievo, Carpi o Sassuolo, ma non crediamo che le loro soddisfazioni sportive dell’ultimo decennio abbiano poi segnato un cambiamento di mentalità nei loro (anche degnissimi e vivaci) quartieri e aggregati. La retrocessione di una squadra coincide con la crisi di una città solo se i due fenomeni hanno -e ben può accadere- radici comuni.
Sul piano degli effetti sportivi, il Cosenza ha scritto l’inizio della propria retrocessione dopo il mercato di Gennaio, non a caso chiamato di “riparazione”. Se non sistemi, se non aggiusti, se non ripari… e le altre ti superano, scegli consapevolmente di rischiare, e di rischiare di perdere, e di rischiare di perdere male. C’è col senno di poi da dar ragione a quelle vituperate frange del tifo (gruppi organizzati e singoli) che avevano da tempo impostato una verace ma non distruttiva azione di critica e contestazione. In fondo il copione di quest’anno ha replicato senza happy ending quello degli ultimi tre: gli obiettivi all’epoca erano stati raggiunti, ma lasciando scoperti incognite e dossier non proprio di second’ordine (vivaio, giocatori di proprietà, programmazione).
Sul piano societario, questo potrebbe -o poteva?- essere il momento della chiarezza e del riscatto: siglare uno di quei patti informali e fiduciari che valgono più di mille contratti. Mettere olio di gomito per allestire una squadra ragionata e in tempi corti, calendarizzare la ripartenza e la non agile risalita. Se del caso, ammettere con franchezza pecche ed errori. Oppure sondare gli interessi di nuovi gruppi ma sempre alle stesse sacrosante condizioni di ogni nuovo inizio: zero magagne, basi solide, voglia di fare. Non sono pubblicamente in campo né il piano A né il piano B.
Ora, se il dato calcistico é ai più chiaro, non é meno agile quello cittadino. La pandemia ha indicato una serie di fragilità per le quali non possono bastare solo le famiglie e le associazioni di volontariato: gli anziani con problemi di mobilità, i fuorisede, le lavoratrici e i lavoratori non contrattualizzati, le persone bisognose di uno screening e di una diagnostica meno lenti dei ritmi imposti da un’amministrazione sanitaria (malamente) covid-centrica. Si dirà: è l’Italia e purtroppo lo è davvero. Solo che qui gli anticorpi pubblici sono ancora più carenti. E ce lo dimostrano tra gli altri gli sforzi sin qui solitari degli artisti (musica, teatro, danza, cinema), che anche nell’estate delle riaperture si trovano davanti una non-programmazione per loro (e per chi ama le loro arti) angosciosa e angosciante.
Agli under 25, e molto più in là, mancano completamente gli aggregatori non esclusivamente ludici. Insomma: c’è una città che soffre davvero una discesa di categoria, socioeconomica e mica solo sportiva. A questa città cui la “retrocessione di dignità” è stata imposta fa da contraltare una città che se l’è scelta: pavida nell’avanzare o nel sostenere nuove forme di autonomia e condivisione, compiacente o strafottente secondo il comodo, tutto sommato indifferente al collettivo e forse troppo avida e poco lungimirante anche per saper ben lecitamente curare il proprio. Una “retrocessione”, che sia sul campo di uno sport o nelle difficoltà di vita, non è un morbo incurabile, ma diventa un altro nome e modo per chiamare un fallimento se non le rispondi affatto.