Saman Abbas e la nostra coscienza sporca
La società in cui viviamo è abituata ad avere un colpevole per tutto. E tutto giudichiamo tranne che il metter in questione noi stessi.
La società in cui viviamo è abituata ad avere un colpevole per tutto. E tutto giudichiamo tranne che il metter in questione noi stessi. Non sappiamo ancora come si risolverà il mistero di Saman Abbas, la ragazza di origini pakistane che ha rifiutato un matrimonio combinato e che risulta allo stato introvabile – nonostante persino tra gli inquirenti si punti razionalmente ormai soltanto alla scoperta del povero corpo. E sul banco degli imputati giustamente salgono i familiari, soprattutto quelli di sesso maschile, che non hanno fatto mistero del ritenere quel percorso di vita (sposalizio obbligato in patria, privazione di autonomia e soggettività, confinamento domestico) l’unico proponibile per una giovane di casa.
La storica dei Paesi islamici Renata Pepicelli ha ben chiarito che ovviamente atteggiamenti del genere – fino all’eliminazione fisica della donna dissidente – non appartengono al vissuto concreto dei musulmani italiani, o perlomeno della decisamente stragrande maggioranza d’essi. Le associazioni islamiche stanno mano a mano disconoscendo con propri comunicati atti e condotte similari – e con altre, più blande, potrebbero mai esserci simpatiche. È in realtà verificabile che in comunità migratorie chiuse, spesso coagulatesi intorno a interpretazioni militari e sorde dei credi religiosi, le donne siano le persone più colpite da un oscurantismo vestito da tradizione e in realtà in iure proprio criminale. Eppure, con la stessa schiettezza con la quale diciamo che le culture e le religioni non faranno mai abbastanza per onorare i propri fedeli educandoli nella libertà e non nella soggezione, dobbiamo pur ammettere che il più consumistico e secolare scenario italiano non è davvero molto più degno. Siamo ancora un Paese di violenze nascoste, di abusi dati per scontati, di veemenza senza senso e di abitudini persino linguistiche sempre più tritacarne e tritatutto.
La giovane Saman non è divisa nel destino da una sua coetanea che sia di Bolzano o di Palermo sfregiata da un pretendente respinto o costretta per anni a subire nel perimetro di casa botte, insulti, fustigazione come strumento di gestione dei rapporti familiari. Se allarme si vuol dichiarare, deve essere verso tutti i comportamenti di questo tipo: se cambiano le cause e quel cambiamento causale va studiato, affrontato e combattuto, i risultati troppe volte convergono nella negazione della persona.
Il discorso femminista in Italia ha avuto e ha grande importanza e potrebbe con sempre maggiore decisione mettere sotto il focus non i cliché della parità col pallottoliere, o delle ospitate televisive, o della sessuofobia forzosamente neutralistica di chi compartimenta l’umano nel linguaggio spersonalizzante dei media, bensì le sofferenze concrete, le prassi ingiuste – persino quelle che sedimentano nel potere prima ancora che nei suoi stessi sottoposti.
Va peraltro notato che l’attivismo civile dell’ultimo decennio ci mostra un discorso sul femminile di tipo nuovo. La discriminazione di genere non si esaurisce sul piano sociale, anzi si deve ammettere che tanti fenomeni spiacevoli nella nostra realtà (sottoretribuzione, nero, sfruttamento, mancato accesso alle cure) sono malamente equalizzati rispetto al genere medesimo. Quello che viene dai nuovi movimenti è un discorso contemporaneamente più duttile e più profondo, che incrocia temi sanitari e politici, educativi e urbanistici, amministrativi ed economici.
Non è solo la rivendicazione di genere a darci pensiero per il caso “Saman” (rubricata suo malgrado a storia esemplare, a etichetta chiusa). C’è purtroppo un ancora altro che è un ancora peggio. I servizi sociali hanno monitorato davvero l’orientamento familiare che denudava le sue vessazioni? Quante enclave territoriali – a prescindere dal ceto, dalla religione praticata, dal Paese di provenienza – agiscono ancora nella piena oscurità, pensando da un lato di difendere un giusto impossibile e dall’altro lasciate a mollo nell’indifferenza, nell’autoghettizzazione, nella mancanza di ogni prospettiva di dialogo verso l’inclusione e la lotta per le libertà fondamentali?
A vedere le dirette televisive, siamo ancora al singolare derby assordante tra gli anatemi contro i migranti o le fatwe contro l’educazione occidentale. Siamo ancora ai cani che fiutando cercano corpi. E non ci chiediamo perché i cani sia stato necessario scioglierli.
- Tags
- saman abbas