Quel parto in carcere e il cattivo utilizzo della custodia cautelare
Nel carcere di Rebibbia una giovane ragazza arrestata per un piccolo furto, è partorita in cella, col solo aiuto di un’altra detenuta.
Qualche giorno fa si è venuti a conoscenza di un fatto che, pur essendosi verificato il 31 agosto 2021 nel carcere di Rebibbia, pare essere tratto da un racconto ambientato alla fine del XIX secolo: una giovane ragazza tratta da poco in arresto per un piccolo furto, è partorita in cella, col solo aiuto di un’altra detenuta e senza alcuna assistenza medica.
Una vicenda che lascia a dir poco perplessi e che evidenzia non solo il cattivo utilizzo della custodia cautelare in carcere, ma anche la scarsa attenzione verso i diritti inviolabili dei detenuti e di chi è in attesa di giudizio, manifestando per l’ennesima volta i limiti della cultura giuridica garantista del nostro Paese.
È importante precisare infatti, che la ventitreenne, incinta di sette mesi, aspettava dal 1 agosto la decisione dell’Autorità Giudiziaria sull’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare, per ragioni connesse al suo stato di salute. Sollecitato più volte, però, chi era preposto a farlo, non decideva: prima per mancanza della relazione dell’Area sanitaria dell’istituto sulle condizioni di salute della detenuta e poi, non si sa per quale non meglio precisata ragione.
Fatto sta che, aspettando tale pronuncia nel merito, il 18 agosto la detenuta veniva inviata per accertamenti urgenti in ospedale, dal quale rientrava in istituto lo stesso giorno e la notte tra il 30 ed il 31 agosto partoriva, senza che i giudici competenti si esprimessero su quanto richiesto. Al manifestarsi dei primi dolori, infatti, e constatata l’urgenza di un ricovero, il medico si sarebbe allontanato per contattare l’ospedale e richiedere l’immediato intervento di una ambulanza, ma proprio in quel frangente la giovane partoriva.
Una vicenda, dunque, assurda e vergognosa che, pur essendosi questa volta conclusa nel migliore dei modi, avrebbe potuto tramutarsi in tragedia nel caso in cui si fossero presentante complicazioni per la madre o per il bambino; non solo, la storia (a lieto fine) si inserisce in un momento in cui si susseguono sempre più notizie allarmanti circa la mancata attenzione – ed i ritardi negli interventi – sui problemi di salute dei ristretti. Uno su tutti, il caso in via di accertamento che ha visto la morte improvvisa di Pasquale Francavilla nel Carcere di Cosenza.
Se quello delle madri detenute è, dunque, un dramma nel dramma non certamente nuovo, che accende i riflettori sulla necessità non solo di garantire le sezioni nido degli istituti penitenziari e negli istituti a custodia attenuata, specificamente attrezzati per l’accoglienza di madri con prole, è altrettanto chiaro che quanto accaduto sembra trovare origine in una sorta di inerzia ed approccio meramente burocratico alla trattazione delle istanze presentate dalle persone che si trovano in carcere e troppo spesso sottoposte a misure cautelari.
Ben vengano, dunque, le verifiche e le ispezioni, ma il rammarico sempre e solo successivo a questi accadimenti non basta più, perché i sentimenti di solidarietà non possono accontentare chi opera quotidianamente in condizioni disastrose negli istituti di pena, né chi vi si trova all’interno a vario titolo. Quello che è ormai non più rinviabile è infatti un immediato intervento volto a porre fine al totale disinteresse istituzionale ai veri problemi del sistema penitenziario, prima che si perda il conto degli incidenti, dei suicidi e delle morti che potevano evitarsi.
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