La mala educación
Il medico del pronto soccorso guarda gli rx e sorride. Niente di rotto, per fortuna, dice, ma poi aggiunge che i legamenti della caviglia non stanno messi bene e forse è il caso che ti trovi un altro sport. Va precisato che quest’ultimo invito gli amici più stretti me lo rivolgono da quando avevo almeno dodici anni.
Il medico del pronto soccorso guarda gli rx e sorride. Niente di rotto, per fortuna, dice, ma poi aggiunge che i legamenti della caviglia non stanno messi bene e forse è il caso che ti trovi un altro sport. Va precisato che quest’ultimo invito gli amici più stretti me lo rivolgono da quando avevo almeno dodici anni. Pertanto non sarà una gran perdita per il mondo del pallone se, alle soglie dei quaranta, il qui presente sarà costretto ad appendere gli scarpini al chiodo dopo la seconda distorsione alla caviglia destra in due anni (la prima fu parecchio più brutta).
E dire che giovedì sera, nella solita partitella tra babbi (ovvero il giro dei papà delle scuole del quartiere), mi sentivo proprio in forma. Palla metà e metà, io convinto di spuntarla e invece contrasto duro e io a terra. La caviglia che scrocchia, io che mi dico ma no che non è niente e continuo a giocarci per un’ora.
Appartengo a quel genere di persone che, a prescindere dai modesti mezzi tecnici a disposizione, si è formato prima su un campo di calcio che tra i banchi di scuola. Ne consegue che quel che ho nella testa, prima ancora che da tabelline e congiuntivi, è frutto di spalletta regolare, puntarola secca, semirova, o gol o rigore e cose così. Ne deriva pure che riconosco al calcio un potere formativo, dentro e fuori: per chi lo gioca, per chi vi assiste. E, quando dopo il verdetto del medico, mi sono calato nei novanta minuti di Benevento-Cosenza mi sono detto che, per chi lo giocava e per chi vi assisteva, quella partita era diseducativa.
Sapevamo benissimo che, a Benevento, si poteva perdere: una squadra che, per sostituire Sau, può scegliere tra Tello e Insigne è chiaramente fuori target. Anche io, al liceo, quando giocavo contro la III A di Stellato, Clausi e Barbarossa sapevo che avrei perso, ma sapevo pure che c’erano modi e modi di uscire sconfitti. Al Cosenza mancavano Palmiero e Boultam, è vero, ma c’erano altre opzioni per sostituirli: Carraro regista e Gerbo (o Eyango) mezzala, per esempio. E se il Cosenza avesse giocato da subito come ha invece fatto all’inizio del secondo tempo, anziché schiacciarsi in difesa senza esercitare pressione, non si sarebbe consegnato mani e piedi all’avversario.
Nella logica educativa del calcio, perdere 3-0 una partita come questa è come prendere 4 all’interrogazione sulla storia di Roma per la quale avevi ripassato a menadito le invasioni barbariche, ma ti hanno chiesto i sette re: torni al banco e ti convinci che studiare non serve a niente. Vigorito penserà alle sue incertezze sui rinvii anziché a quelle due o tre parate che hanno limitato il passivo. Pirrello si chiederà perché è sempre nel posto sbagliato e Situm perché spesso nel posto giusto senza che nessuno lo veda. E tutti cominciamo a pensare che questa stagione sarà più difficile di quanto settembre ci avesse fatto credere. Risultato: il Cosenza ha affrontato una delle corazzate della cadetteria e ne esce con l’autostima a pezzi.
Una squadra giovane è un equilibrio delicato. Qui non c’è Petrucci, oggi felicemente accasato all’Hapoel Beer Sheva, ossia quel tipo di giocatore entrato nella logica degli ingaggi da portare a casa prima che finisca la pacchia. Questa è una squadra di giocatori che magari non sono ancora all’altezza della categoria, ma che non lo saranno mai se non sono messi nella condizione di provarci. La cocciutaggine di Caso, l’insicurezza di Vallocchia, le amnesie difensive di Sy esistono, sono reali. Ma lo saranno sempre di più in un gioco rinunciatario, senza intensità, come quello visto a Benevento. Al Vigorito il Cosenza ha giocato come al Franchi ad agosto, ma nel frattempo sono trascorsi due mesi e questo non va bene.
Forse il Cosenza avrebbe perso anche tagliando i rifornimenti tra Calò e Ionita, ma qualcuno negli spogliatoi avrebbe potuto dire quei due si sono cercati 25 volte e 24 volte abbiamo interrotto la linea di passaggio e, su questo, costruire l’autostima propria e del resto della squadra. Persino di quei settecento saliti fino a Benevento. Io, almeno, finché giocavo a calcio, ho ragionato così.
Se stai nel recinto dei limiti che hai e già conosci, non saprai mai quali altri puoi superare. Fino alla vittoria col Crotone, il Cosenza i propri limiti li ha affrontati. Da allora, complici infortuni e problemi vari, nel recinto dei propri limiti è tornato. Questo intendo per mala educación.
La Ternana, ad esempio, nostra prossima avversaria, era partita malissimo. Lucarelli ha un organico di prim’ordine, ma non si è fatto prendere dalla paura e ha insistito sul suo lavoro. Il risultato è una sola sconfitta (contro la Cremonese) nelle ultime cinque gare e quattro vittorie (contro Pordenone e Vicenza, vero, ma pure Parma e Spal). Soprattutto dopo la cinquina che hanno rifilato ai berici, direi che è la lezione perfetta per tornare a educare il Cosenza secondo i crismi che, fino ad Alessandria, si erano visti. O, almeno, tornare a provarci.