Il caso di Giannino Losardo, il dirigente Pci ucciso a Cetraro dalla ‘ndrangheta, diventa un film – VIDEO
La regista calabrese Giulia Zanfino ricostruisce la storia di un uomo la cui memoria da quarant’anni attende giustizia
Non è una storia a lieto fine quella di Losardo. Non è di quelle in cui il protagonista lotta, inciampa e poi trova il giusto incrocio di circostanze e fortuna e vince, vive, mentre i lampeggianti si allontanano con i cattivi dentro. È una storia che finisce con un lutto e una perdita e nessun colpevole.
Così è per tante storie tratte da vite vere. Storie in cui alla fine i buoni perdono. Tanti nella loro battaglia contro il malaffare, oggi non ci sono più. Stroncati nel fiore degli anni da un proiettile o una carica di dinamite. Eppure, per loro, la fine è cangiante, cambia colore, a seconda dell’inclinazione con cui la si guarda. Può essere nera, definitiva, o può essere luminosa e indicare una strada nascosta.
Giovanni Losardo, “Giannino”, era un uomo giusto, nel senso più puro del termine, e credeva che solo uno Stato immacolato potesse ripulire dallo sporco del malaffare anche il più piccolo dei borghi. Nella sua Cetraro ha portato avanti le sue convinzioni, con forza, fede, senza arretrare mai di un passo. Il suo cammino non l’hanno fermato neppure quando una notte, era il 21 giugno del 1980, due sicari hanno fatto fuoco contro la sua Fiat 126 azzurra. Ma, dicevamo, la memoria è tutto e può cambiare le cose, indicare un percorso nuovo. Lo sa bene Giulia Zanfino, regista calabrese, che ha deciso di realizzare un docufilm sulla vita di Losardo, indagandone il lato non solo pubblico ma anche privato.
«Tutto è cominciato con un caro amico, Francesco Saccomanno, che mi ha presentato il figlio di Giannino. Da lì ho iniziato a ricostruire questa vicenda che da 40 anni aspetta giustizia. È un lavoro che cerca di fare un’analisi critica del territorio e di un’epoca lontana perché nel film racconto anche l’infanzia di Losardo e quindi il periodo del Dopoguerra in quel territorio».
Che difficoltà ha incontrato lungo il cammino?
«Sebbene Cetraro sia una cittadina molto accogliente, c’è ancora molto timore del clan egemone, il clan Muto, che ancora oggi non si capisce se sia ancora quello dominante. Ricordo che quando andammo davanti ai seggi elettorali per girare, molte donne si avvicinarono a noi dicendo: “Voi Losardo lo dovete lasciare dov’è”».
Nella fase di scrittura qual è la parte che ha toccato le sue corde più profonde?
«A me è piaciuta la parte più sconosciuta, intima di Losardo. Il figlio mi raccontava che il padre, nonostante fosse segretario capo della Procura e dirigente del Pci locale, quindi molto impegnato, riusciva a trovare sempre il tempo per stare con i figli a cui faceva ascoltare Tenco e Rossini o leggeva la Divina Commedia. Dalle foto lui sembra una persona molto austera, invece era vivace e solare».
A che punto è la lavorazione?
«Siamo a metà, in primavera dovremmo battere l’ultimo ciak e poi sarà la volta del montaggio. La produzione è dell’associazione “Con i miei occhi” e la presidente Maria Grazia Bisurgi è calabrese come me e questo lo trovo molto bello. La produzione esecutiva è di Open Fields Production, mentre Mauro Nigro è direttore della fotografia. Abbiamo avuto l’appoggio della Calabria Film Commission e di molto enti: il Comune di Paola, di Casali del Manco, di Acri e di altri comuni che stanno aderendo, poi anche dell’Ente Parco della Sila e della Fondazione Carical».
Ultima scena, ultimo frame di montaggio e poi?
«Proveremo con i festival con tutte le difficoltà che spesso incontrano progetti indipendenti. Quello che conta per me è fare un buon lavoro per tenere viva la memoria di un uomo che per la Calabria ha fatto tanto. Mi auguro che questa opera smuova qualcosa, non è mai troppo tardi per fare giustizia».