martedì,Dicembre 10 2024

La sofferenza e la dignità

La sconfitta col Parma dimostra, purtroppo, che è diventato impossibile scherzare, arrabbiarsi, gioire, parlare di calcio, con questo Cosenza. Comunque vadano le cose. L’ho capito in Polonia. Con un tifoso del Metalist

La sofferenza e la dignità

Ho sempre avuto una enorme fissazione per le maglie da calcio. Il merchandising era cosa rara, ancora nei primi anni Novanta, e spesso l’unico modo per accaparrarsene una era fare invasione a fine partita – una cosa bellissima, che ora non succede più. Da piccolo mi domandavo sempre come diavolo facessero gli ultrà a farla dalla curva. Una volta, Cosenza-Licata, quella del gol di Bergamini, sgattaiolai via da mio padre in numerata, passai un cancello, scesi una scala e mi ritrovai perso sul terreno del San Vito, spaventato. La cazziata che mi presi non mi distolse tuttavia dalla profonda convinzione che dentro quelle maglie ci fosse un mistero. Ero cioè convinto che, indossando una Lagostina o una Quarry Jeans, io avrei davvero giocato come Venturin o Statuto. E lo sono tuttora visto che, grazie alla splendida iniziativa di Gigi Simoni a sostegno della famiglia Bergamini, ho partecipato all’asta per una Stanley indossata da Biagioni (e l’ho persa per dieci euro, accidenti). Possederne una, insomma, per me è ancora come estrarre una spada dalla roccia. Ovviamente non è vero: scarso sono e scarso resto. Ma quello che conta è la sensazione, il potere che mi fa sentire. Io, con una maglia del Cosenza addosso, mi sento ancora oggi grande e invincibile.

Sabato non ho visto la partita. Alle 14.00 i miei occhi erano abbagliati dalla neve candida di Lublino, una città polacca a poco più di cento chilometri dal confine ucraino che nelle ultime settimane ha visto arrivare oltre trecentomila profughi in fuga dalla guerra. Sulla pista dell’aeroporto aspettavo insieme ad alcuni colleghi l’arrivo di 134 rifugiati, che le Misericordie fiorentine stavano portando con un volo charter via da Leopoli. Tra loro anche una ventina di orfani, disabili e malati gravi.

Eravamo ormai decollati quando, tra le file piene di mamme, educatrici e bimbi, ho visto una sciarpa gialloblù addosso al collo di un ragazzo. Stavo distribuendo alcuni giochi che i miei figli mi avevano affidato e in mano stringevo una mia splendida Caffè Aiello del 2009. Quella sciarpa gialloblù era un segno: la mia maglia dovevo darla proprio a lui.

Lo so che i più scaltri tra voi stanno già sghignazzando, ma che davvero, Marotta, hai pensato che una maglia di calcio potesse avere un senso per un ragazzo in fuga da una guerra? Beh, sappiate che la mia risposta è sì. Sarà sempre sì, sarà sì finché campo, sarà sì finché la gente inorridirà borghese quando paragono il Cosenza alla Concordia. E sarà sì perché il calcio per me è uno dei più importanti beni rifugio dell’uomo. E lo era evidentemente anche per quel ragazzo ucraino. 

Pensavo infatti che il gialloblù della sua sciarpa fossero i colori della nazionale ucraina, e invece Metalist, mi fa, la squadra di Kharkiv, città ora sotto l’assedio dei russi, che prese questo nome dai lavoratori delle industrie di metalli in città (quindi bene). E, soprattutto, uno dei gruppi ultras più di estrema destra in quel Paese: il loro capo Andriy Biletsky, per dire, è noto come Fuhrer bianco ed è il fondatore del famigerato Battaglione Azov (quindi male).

Non era evidentemente il momento di fare analisi sociopolitiche, ma quel ragazzo deve aver colto con uno sguardo tutti i miei dubbi. Srotola la sciarpa davanti ai miei occhi e c’è scritto solo Forza Metalist sopra. Mi confessa anche che vorrebbe davvero avere un paio di anni di più per arruolarsi e combattere per il suo Paese, ma poi stringe quella sciarpa e mi fa support your local team, don’t you? Che è il motivo per cui io indosserei la mia vecchia Old Style anche a una cena di gala. 

Più tardi, sulla strada per Firenze, alcuni amici mi hanno scritto per sfogarsi. Questa squadra mi fa persino passare il gusto della sofferenza, non sono quasi più nemmeno incazzato quando perdiamo, dicevano. E io, che avevo visto davanti a me una delle sofferenze peggiori, cioè la fuga da una guerra, l’abbandono della propria casa, ero sorprendentemente d’accordo. Nick Hornby lo racconta meglio di tutti: dopo un po’ che segui il calcio non riesci più a capire se la vita è una merda perché l’Arsenal fa schifo o viceversa. A volte è vera un’altra cosa ancora, che cioè scarichi (o sublimi) una certa sofferenza in quella sportiva. But it hurts so lovely, come cantavano gli Shandon. Come quel ragazzo ucraino con il suo Metalist.

Ed è il motivo per cui, cari lettori, questo è il mio ultimo Minamò almeno fino a fine stagione. Mi è diventato impossibile scherzare, arrabbiarmi, criticare, gioire, parlare di calcio, di Caso a tutta fascia e di una difesa messa alla berlina da Bernabè, con questo Cosenza. Comunque vadano le cose. Dovesse anche arrivare una vittoria a Ferrara e poi l’ennesima impresa stile 2020 nelle ultime giornate (che è quel che spero davvero, prima che vi avventuriate nello sport del dalli al tagliaturu, come spero che prima o poi Goretti impari a fare il ds e Guarascio il presidente). Lo scrivo con un certo sconforto, perché lasciando questa rubrica sento di fare uno sgarbo a un amico fraterno come Antonio Clausi, ma soprattutto di tradire il bambino che ero, quello che disobbediva a papà e faceva invasione per strappare una maglia (ma a chi la chiederei, oggi? L’unico che mi viene in mente è Nuciddra Florenzi), che avrebbe pagato per scrivere del Cosenza, e di fare un torto persino a quel ragazzo che, in fuga da una guerra, si porta dietro la sciarpa del Metalist. Ma in realtà credo che sia l’unico modo per preservare tutto.

Il vecchio George Berkley qualche secolo fa si domandava se un albero cade in una foresta, fa rumore anche se non c’è nessuno nei dintorni? E io, nel 2022, gli rispondo quel rumore un tempo era la sofferenza più dolce che potessi provare. A Taranto come a Lecce, a Padova come a Verona. Che quella sofferenza mi ha insegnato a stare al mondo. Adesso, invece, solo a raccontare di quest’albero che agonizza, mi sembra di conferire a chi lo sta facendo avvizzire una dignità che non merita. E quella dignità va difesa. Ad ogni costo.