L’ultimo abbraccio di Cetraro al giornalista Amedeo Ricucci
Ieri amici e parenti gli hanno detto addio nella chiesa madre San Benedetto Abate, durante una cerimonia officiata da don Ennio Stamile e don Loris Sbarra
Avrebbe compiuto sessantaquattro anni il prossimo 31 luglio, ma le lancette del suo tempo si sono fermate venti giorni prima in una stanza d’albergo di Reggio Calabria. Il giornalista Rai Amedeo Ricucci se n’è andato improvvisamente, mente si stava preparando all’ennesima giornata di lavoro, l’ennesimo reportage sulla ‘ndrangheta per spiegare, una volta di più, quanto sia macabro e vigliacco quel mondo fatto di armi e odio. Ieri a Cetraro, sua città natale, amici e parenti gli ha detto addio nella chiesa madre San Benedetto Abate, durante una cerimonia officiata da don Ennio Stamile e don Loris Sbarra. In una chiesa affollata si sono ritrovati i suoi affetti più cari e i colleghi, venuti anche da lontano, e decine di rappresentanti istituzionali. Assente giustificato il presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Calabria, Giuseppe Soluri, impossibilitato a presenziare alla cerimonia funebre per impegni pregressi. C’era però Luigi Lupo, in rappresentanza del Circolo della Stampa di Cosenza, delegato dal presidente Franco Rosito.
Il ricordo di don Ennio Stamile
Don Ennio Stamile e Amedeo Ricucci si conoscevano bene. Erano amici da tempo e avevano condiviso persino un’esperienza in Africa. Proprio a lui, lo storico inviato di guerra, aveva confidato la volontà di stabilirsi nuovamente a Cetraro. Da poco aveva avviato i lavori di ristrutturazione della sua casa in Calabria e piano piano stava traslocando dalla sua dimora romana. Al parroco avrebbe anche confidato di volersi impegnare per la sua città, una volta andato in pensione, e di non escludere l’entrata in politica. Dopo aver girato il mondo e raccontato l’orrore delle guerre, Ricucci aveva intenzione di cambiare le cose nel posto in cui era nato e dove, di tanto in tanto, tornava per riabbracciare i suoi famigliari e prendersi una pausa dal dolore che ogni giorno era costretto a raccontare. Come nella primavera del 2013, quando fu liberato da una prigionia di undici giorni in Siria e tornò a casa per rimettere insieme i pezzi della sua anima. I suoi concittadini, e tanti suoi ex compagni di scuola, accolsero il suo arrivo al paesello come una star, ma lui, racconta chi lo ha conosciuto, non era avvezzo alla gloria e alla luci della ribalta. Anzi, ne era quasi infastidito. Don Ennio, che fu al suo fianco anche in quella occasione, ricorda perfettamente la sua reazione: «Non fate di me un santino». Ricucci non si sentiva né idolo né martire. Il vittimismo non era nelle sue corde e d’altronde quel mestiere, che tanto gli ha dato e tanto gli ha tolto, lo aveva scelto con tutte le forze. Anche dopo il 20 marzo 1994, quando in Somalia, a pochi metri da lui, si consumò l’omicidio della collega Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, o dopo 13 marzo del 202, quando in sua presenza si verificò l’uccisione del fotografo del Corriere della Sera, Raffaele Ciriello, a Ramallah.
Il ricordo dei colleghi
Ieri tra i banchi della chiesa erano seduti tanti suoi colleghi. Uno di questi, Alessandro Gaeta, ha preso la parola per ricordare quanto il cronista di guerra fosse umile e quanto amore avesse lasciato in ogni posto in cui è stato. Amedeo Ricucci amava follemente il suo lavoro, al punto da affidargli il suo destino e sperare di esserne salvato. A Gaeta, che come tanti colleghi gli suggeriva di rallentare un po’, il reporter della Rai aveva risposto che il suo lavoro lo avrebbe curato e salvato dalla malattia. La sorte, tre anni fa, gli aveva inflitto un colpo bassissimo e gli aveva fatto scoprire un tumore, che in pochi mesi erano diventati due. L’ultimo lo aveva attaccato ai polmoni. Da un paio di giorni le sue condizioni di salute erano peggiorate vistosamente. Ma lui di mollare la presa non ne aveva voluto sapere ed è rimasto al suo posto, quello della trincea, fino all’ultimo istante della sua vita. Quando è spirato era in una stanza d’albergo di Reggio Calabria. L’operatore era andato a sincerarsi delle sue condizioni e aveva notato che stava molto male, tanto che la morte è sopraggiunta nel giro di pochi minuti. Ieri l’ultimo, doloroso saluto, che ha accompagnato il feretro al sagrato con un lungo applauso.