mercoledì,Ottobre 4 2023

William, it was really nothing

Dopo la sconfitta di Pisa, la quinta consecutiva, l’ultima cosa che ci possiamo permettere è che, dopo la squadra, anche il timoniere perda la bussola. Vincere col Palermo permetterebbe a Viali di non subire scelte di mercato ancora una volta in linea con il risparmio anziché con la nostra storia

William, it was really nothing

Sarà che il concerto di The Cure a Milano è stato il primo a cui sia tornato ad assistere dall’inizio della pandemia. Sarà che la voce di Robert Smith era in forma come l’ultima volta che l’avevo sentita dal vivo, nel 2004. Sarà che una sezione ritmica molto muscolare non è riuscita a scalfire la bellezza di pezzi come A forest, Push e A night like this, fino a un clamoroso finale (chissà quante band possono permettersene uno che si snodi da Friday I’m in love a Boys don’t cry). Sarà che, poi, il sabato calcistico è stato da dimenticare, ma nei giorni successivi alla debacle di Pisa mi sono ritrovato a riascoltare un sacco di musica che non sentivo da tempo.

Non so se succede anche a voi, ma a me è capitato spesso di sentirmi chiedere che musica stai ascoltando e, davanti alla mia risposta, sentirmi obiettare no, ma io dico musica di oggi, non di vent’anni fa. Beh, e se io la stessi ascoltando adesso, che problema c’è? Non ho mai capito molto bene questa ossessione per l’oggi, il qui e adesso – detto da uno che per lavoro si occupa di cronaca, mi rendo conto sia un bel casino. Il tempo è una cosa molto soggettiva e con la musica forse riesco a spiegarlo meglio. Ovvero: se io The Cure e The Smiths li ho scoperti nel 2000, perché dovrei metterli tra i dischi degli anni Ottanta? Per me saranno sempre album del 2000, perché è stato lì che li ho scoperti – e se non li avessi scoperti nel 2000, forse, nel settembre successivo non sarei andato fuori di testa per Kid A dei Radiohead.

Insomma, credo che l’abbiate capito che non ho molta voglia di scrivere di calcio. Soprattutto dopo aver visto coi miei occhi 8 gol in due trasferte consecutive. In realtà l’ho presa molto alla larga per dire un paio di cose.

Quando vi raccontano che negli anni Ottanta c’era una generale tolleranza verso gli omosessuali, e che sia stata l’invenzione del fluid gender a scatenare l’omofobia, sappiate che vi raccontano una grandissima palla. Come al solito: se avevi abbastanza soldi per chiuderti in una reggia e organizzare party selvaggi (vero, Freddie?), forse problemi non ne avevi granché. D’altronde sull’obbligo di nascondere addirittura fragilità e identità sessuali fluide, Robert Smith ci ha scritto Boys don’t cry, e basterebbe questo. Figuratevi salire su un palco e cantare Come puoi stare con una grassona che ti dirà: “Oh! Vuoi sposarmi?”, lasciando intendere di essere il terzo incomodo (omo) di una relazione (etero, ovviamente di copertura).

William it was really nothing nel caso di questo blog vuole essere tutt’altro. E cioè l’invito a un allenatore comunque coraggioso (per me ormai chiunque accetti di sedere sulla panchina del Cosenza ha la stessa dignità di William Wallace) a non caricarsi il mondo sulle spalle dopo la sconfitta di Pisa. Davvero, William, non è successo niente. Non è colpa tua, come diceva un ispiratissimo Robin Williams al genio ribelle Will Hunting. Quel che conta è ciò che segue: se il Cosenza di Viali somiglierà a quell’orrore visto nella prima metà partita o rinascerà fiore da quel letame, come accaduto nella ripresa all’Arena Garibaldi, lo scopriremo solo dopo la sosta.

Ripeto quel che scrissi sette giorni fa: questa squadra deve recuperare Florenzi (sia lodato il suo rientro), rimettere al centro i calciatori più tecnici che ha (D’Urso e Calò) e recuperare la fiducia di quelli che l’hanno smarrita anzitutto in se stessi (Zilli, ma non solo). Se ci pensate, quel che ci è accaduto non è diverso da quella storia che scrivevo poco sopra sulla reale età anagrafica dei dischi. Quest’anno il Cosenza è partito a razzo (coi punti) e a rilento (con gioco e idee). Quando ha perso i punti, ha perduto anche l’autostima. Per cui William Viali si ritrova in mano una squadra che ha creduto forse addirittura di poter essere la mina vagante del torneo e che, ora, invece ha paura persino della propria ombra (altrimenti errori come quello di Brescianini a Pisa come si potrebbero spiegare?).

Da qui la mia esortazione: it was really nothing, non è successo niente. Perché l’ultima cosa che ci possiamo permettere è che anche il timoniere perda la bussola. Quella col Palermo è una partita da terra di mezzo (prima della sosta, dopo il cambio in panchina) e sarebbe cosa buona e giusta trovare il modo di portare a casa i tre punti. Questo permetterebbe a Viali di non subire le prossime scelte di mercato (la caccia agli svincolati: ti prego, sanfrancischipà, dammi la forza!) che mi spingono, settimana dopo settimana, a rimangiarmi persino le virgole di quel Minamò in cui arrivavo a dire I wanna Gemmi with you. Abbi pietà di me, Bob.

Vedete, il punto è tutto qui. Voi, io, noi abbiamo una storia comune. È la storia di una squadra di calcio che è stata per un quarto di secolo (una generazione intera) tra terza e quarta serie e, poi, è riuscita a imporsi per un decennio abbondante tra i cadetti tra il 1988 e il 2003. Dicevi Cosenza in giro per l’Italia e ti vestivi di rispetto. Per i giocatori che indossavano il rossoblù, per la storia degli ultras, per il San Vito sempre pieno. È difficile far capire, a chi quella storia non l’ha vissuta, che cosa sia stata. E per me è come se fosse sempre qui. Come un disco del 1985 che ho ascoltato nel 2000 e che continuo ad ascoltare (e che resta più attuale di qualsiasi cosa schizzi nella riproduzione casuale di Spotify).

Questo non vuol dire però accettare tutto a scatola chiusa. Un tifoso che lo facesse sarebbe un tifoso cieco, e io per fortuna ci vedo benissimo. Continuo perciò ad avere grosse riserve sulla scelta di Viali. Una società seria avrebbe puntato su un tecnico solido e navigato. Ma non a novembre: a luglio. E siccome l’unica alternativa al fallimento di Viali sarebbe il ritorno di Dionigi, inutile girarci intorno, le nostre chance di salvezza corrono su questo binario difficilissimo. Evidenziare la cattiva gestione societaria, da una parte (mi verrebbe da dire continuare a evidenziare, ma questo è un lusso per pochi). Sostenere questa squadra e questo allenatore, stretti ahiloro in un gioco più grande.

Una cosa è certa. Siamo nel 2022 e a me, come in quei dischi del 1985 scoperti nel 2000, sembra di rivivere sempre la stessa stagione da cinque anni. Una specie di giorno della marmotta, ma senza Andy MacDowell e, quindi, molto meno divertente.

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