Violenza sulle donne, Penna: «Il processo penale non è un deterrente»
«L’odio e la vendetta - scrive la criminologa e avvocato - assai in voga ultimamente tra alcuni politici ed anche incredibilmente tra alcuni operatori del diritto, non possono in alcun modo contribuire a far arretrare il terribile fenomeno dei delitti di genere»
L’avvocato criminologa Chiara Penna, interviene alla vigilia della giornata contro la violenza sulle donne. «Mai come in questo momento è necessario ricordare che la violenza contro le donne e contro i soggetti fragili e vulnerabili in generale, si combatte solo ed esclusivamente con la cultura del rispetto delle differenze e non attraverso le gogne mediatiche e giudiziarie».
«L’odio e la vendetta – scrive – assai in voga ultimamente tra alcuni politici ed anche incredibilmente tra alcuni operatori del diritto, non possono in alcun modo contribuire a far arretrare il terribile fenomeno dei delitti di genere. Seppur tale idea pare serpeggiare, il processo penale non è, invero, uno strumento di educazione sociale, non è un mezzo attraverso il quale si combattono i fenomeni criminali di nessun tipo, non è un deterrente al compimento di atti violenti. Inasprire le pene e introdurre “processi speciali” invece che prevenire, è una posizione evidentemente legata a concetti ormai superati da oltre 400 anni, quando l’illuminismo giuridico ha introdotto principi di civiltà giuridica che dovrebbero essere assolutamente ormai metabolizzati».
«Non è un caso se, ad esempio, non è stato affatto risolutivo e nè ha funto da deterrente alla violenza di genere, il cosiddetto “codice rosso”. Dietro a quello che viene definito dal punto di vista sociologico e criminologico “femminicidio” ci sono – dice Chiara Penna – motivazioni che hanno a che fare con l’annientamento della donna in quanto donna. Ció basta a considerare che non ogni omicidio di donna è femminicidio. Il drammatico fenomeno è, difatti, da intendersi come il prodotto della violazione dei diritti umani della donna in ambito pubblico e privato. Violazione che si manifesta attraverso varie condotte misogine giustificate dalla società stessa che, mettendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con la sua uccisione».
«Non si parla pertanto solo di “eliminazione fisica” ma anche di altre forme di violenza come: suicidi indotti, incidenti o sofferenze psichiche procurate dall’insicurezza, dal disinteresse delle istituzioni, dall’esclusione della partecipazione alla vita pubblica e dall’annullamento dell’identità. Il tutto nel totale disinteresse da parte dello Stato. Se si continuerà, dunque, a pensare erroneamente che ogni omicidio di donna è femminicidio, accomunando così condotte che hanno matrici intra psichiche distanti, non si comprenderanno mai le cause del fenomeno e non si troverà mai una soluzione.
Solo attraverso l’attuazione di vere e proprie azioni – conclude la criminologa – volte a rendere più forti, consapevoli ed economicamente autonome le donne, con la promozione di serie politiche di educazione al rispetto e al riconoscimento di pari diritti tra consociati, si puó davvero dare risposta alle reali istanze di tutela di chi si trova ad affrontare percorsi di uscita da situazioni di violenza».