Disuniamoci (seconda parte)
Nel momento più duro della protesta delle curve, il presidente Guarascio cerca di romperne il fronte con il biglietto a un euro. Difficile considerare questo gesto un'apertura al dialogo, dopo aver rivendicato nel confronto pubblico in Comune ogni singola decisione degli ultimi anni
Dev’esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto dove non soffriremo e tutto sarà giusto, cantava Francesco Guccini nella sua Cyrano. A volte mi accontenterei di un mondo parallelo, nel quale le cose (almeno lì) vadano come devono andare. Dove si ricompongano cioè quelli che, secondo la teoria delle catastrofi, sono i punti di non ritorno di una storia. Quei momenti che segnano un prima e un dopo, uno scarto netto e definitivo tra passato e futuro.
Quello di martedì, l’incontro pubblico a Palazzo dei Bruzi organizzato dal sindaco Caruso con il presidente Guarascio (e disertato dalla tifoseria), è uno di questi. E nel mio mondo parallelo, davanti a una sala semi deserta, a quasi cinque anni dall’entusiasmo montato sulla cavalcata playoff di Braglia, a tre da quello seguito alla salvezza con Occhiuzzi, a due dall’avventurosa riammissione, a otto mesi appena dai ventimila dello spareggio playout – e cioè dalle quattro grandi, enormi occasioni di ricostruzione dilapidate da questa dirigenza – c’era una sola cosa che la proprietà avrebbe dovuto fare in quella sede. Chiedere scusa. Cinque lettere appena. Le uniche che potessero colmare la frattura con la tifoseria, quel disuniamoci al quale invitavo, dolorosamente, già dodici mesi fa.
E tuttavia due momenti di grande verità ci sono stati lo stesso, nonostante un racconto avvenuto quasi sotto forma di autoipnosi. Faremo l’impossibile per tenere il Cosenza in serie B, ha detto il proprietario, aggiungendo con nonchalance come sempre. E poi: siamo una delle società più serie d’Italia, prima di puntellare l’asserzione con la frase la nostra squadra Primavera è seconda in campionato (è settima, ndr). E ancora: abbiamo investito più del giusto, quasi come dire anche troppo. Il tutto pronunciato con un tono quasi sorpreso e tracotante di rivendicazione e fastidio, quanto cioè di più distante possa esserci dall’estremo tentativo di ricucire.
Quello che si è consumato a Palazzo dei Bruzi, dunque, è semplicemente il punto di non ritorno. La sensazione, anzi la certezza, è che chi opera sia intimamente convinto di non aver mai commesso errori (e perciò non può comprendere davvero cosa ci sia da discutere con la tifoseria). Come dimostrano le due fiabe finali: quelle sulla legalità e sullo stadio pieno solo quando si vince (falso: basta vedere i numeri in trasferta). Quasi che l’ultimo posto in classifica sia stato provocato dagli spalti deserti. Da qui la mossa successiva: le curve a un euro. Non una mano tesa, ma con tutta evidenza il tentativo disperato di riempire le gradinate per minimizzare la protesta in atto. Per poi aggiungere che il Cosenza ci unisce. Altra falsità. Perché alla tifoseria il Cosenza appartiene. Detenerne le quote societarie è un’altra faccenda.
Eppure è bastata una frase, una sola, a interrompere la catalessi del presidente. E cioè il semplice invito da parte di Antonio Domma a comprare i giocatori buoni, ovvero l’abc del calcio. Perché hai voglia a invocare l’unità dei tifosi e il dodicesimo uomo in campo, ma gli altri undici sono scelti e stipendiati dalla proprietà (e oggi con la rosa allestita non si completa nemmeno un quintetto decente a calcetto). Il presidente, visibilmente scocciato, ha ribattuto se avete la formula voi, ditemela, la maschera del bravo bravissimo è caduta e per un attimo mi sono ritrovato in quel 1995 che vide Paolo Fabiano Pagliuso replicare alle prime proteste dei tifosi dicendo jativi viditi u Zumpanu. O nel 2001, in questo meraviglioso shetch di Corrado Guzzanti.
Il secondo momento di verità ha invece fatto finalmente cadere il velo sull’ipocrisia del non ci sono mai state offerte per un passaggio di proprietà. L’avvocato Calvelli, rappresentante di un trio di imprenditori vecchi e nuovi, ha smentito pubblicamente il presidente – e, sia chiaro, chi scrive non fa il tifo per nessuno, ma almeno adesso la smettano di farneticare quelli che il Cosenza non lo vuole nessuno. Semmai il problema è, come sopra, economico: la cifra fissata da Guarascio è diversa (superiore) rispetto alle offerte ricevute finora. E non è la stessa cosa.
D’altronde, per chi ha letto il Minamò di sette giorni fa, quella appena trascorsa è stata una settimana di semplicissima lettura. A Modena, dopo sessanta minuti discreti, è bastato perdere per infortunio uno Zilli non trascendentale in attacco per sprofondare in difesa. Come dire che, nonostante tutto, sarebbero sufficienti tre o quattro elementi di categoria per sfangarla anche quest’anno. Ma d’altra parte aumentano i dubbi. Il ds Gemmi, dopo aver dichiarato Brignola non sul mercato al venerdì, lo vede partire per Catanzaro al martedì – e, dunque, chi è che sta facendo il mercato del Cosenza? Chi è il direttore sportivo?
Bella domanda. Le frasi faremo l’impossibile, abbiamo investito più del giusto e siamo una società seria si sposano male con chi, per il terzo anno di fila, tiene il ds a scadenza o lo assume per 12 mesi. Per chi è costretto ancora una volta a smontare il giocattolo precario costruito in estate. Nuovi arrivi, intanto nessuno – a parte, forse, il ritorno di D’Orazio. Uno dei primi, Cortinovis, ha battuto qualche colpo – mi sembra buona e piuttosto naturale l’intesa con Florenzi. In attesa di vedere Marras, Finotto non mi pare a occhio un elemento decisivo. Servirebbero soldi veri, quelli che portano i giocatori di qualità invocati da Domma, un nuovo tecnico (capace di una media punti migliore rispetto a quelle di Viali e Dionigi) e un progetto. Senza questi è normale che anche gente come Cavion o Gucher (ovvero calciatori con un luminoso avvenire dietro le spalle) preferisca altre strade. E che l’ultimo posto diventi permanente.
Non ci possiamo fasciare la testa, ha rivendicato invece Guarascio. Come a dire: il campionato è lungo, mica siamo già retrocessi. Ma qui s’è rotto ben altro. Questi cinque anni in serie B hanno fatto tabula rasa di quel buono che si era costruito negli anni Novanta. Il Cosenza oggi è questa roba qui: il fanalino di coda del torneo, l’ultima spiaggia anziché un trampolino di lancio per i calciatori, uno stadio pieno di rabbia e vuoto di gente, una tifoseria costretta a disunirsi dal proprio amore.
Ed è chiaro che questo faccia male a tutti. All’immagine pubblica del presidente, alla nostra piazza e a noi stessi, perché stare fuori da uno stadio è uno sciopero a tutti gli effetti. Per un tifoso è un giorno in meno di passione, per un lavoratore di stipendio. È una vertenza aperta, che gli ultrà porteranno in piazza venerdì come gli operai farebbero con un corteo. Ma è anche la prova che, proprio come nei luoghi di lavoro, i posti di comando siano transitori. E, quando la protesta è più dura, l’unica speranza di chi detiene il potere è cercare di spaccarne il fronte. A questa speranza oggi al Marulla viene dato un prezzo. E quel prezzo è un euro.