venerdì,Giugno 2 2023

Sliding doors

La classifica continua a essere corta, ma il Cosenza non può fallire nemmeno una delle prossime tre partite. A cominciare da quella col Sudtirol. Un doppio incrocio di sentimenti che rivela ancora una volta il fallimento della gestione Guarascio

Sliding doors

Stavo per cominciare questo Minamò con una lunga e dotta disquisizione su Gwyneth PaltrowSliding doors, quando quel poco di memoria che mi resta mi ha segnalato ehi, ma sta roba l’hai già scritta. E in effetti era l’ottobre 2020 (cicca qui) quando vi raccontavo del film sulle vite parallele di Helen Quilley. E questa coincidenza m’inquieta, perché quella stagione 2020/21 finì a Lignano Sabbiadoro, come ben ricordiamo.

Cerco di non pensarci e, anziché temere un principio di precoce demenza senile, mi ripeto che in realtà gli sliding doorsmi hanno sempre affascinato. E quelli sportivi quasi più di quelli sentimentali. Penso al Cosenza che fallì la promozione nel 1989 – e al piccolo ciclo che aprì la Cremonese negli anni Novanta, fino alla vittoria del Trofeo Anglo Italiano. Penso a quella mancata nel 1992 e al grande ciclo che, invece, avviò l’Udinese, peraltro attivo tutt’ora. Penso a quella del 2001 e al Chievo Verona, che fino al fallimento (che ha portato alla nostra riammissione, due anni fa) ha pascolato stabilmente in serie A.

Penso però anche a quegli allenatori che, dopo essersi seduti sulla panchina rossoblù senza riuscire a centrare il grande sogno, si sono accomodati altrove riuscendovi. Su tutti il (mai abbastanza) compianto Emiliano Mondonico. Subentrato due volte alla guida dei Lupi, e due volte esonerato, prima di raccogliere in corsa la Fiorentina nel 2004 e riportarla in serie A dopo quel triplo salto carpiato dalla C2 alla B, avvenuto peraltro a nostre amarissime spese. Oppure a Bortolo Mutti che, in quella stessa stagione, riuscì col Messina nell’impresa mancata tre anni prima in riva al Crati.

Dunque, nulla di nuovo nel vedere scendere sabato al Marulla quel Sudtirol eroicamente battuto in semifinale playoff nel 2018 e tuttavia capace, cinque stagioni più tardi, di issarsi da matricola assoluta al terzo posto in classifica. Con lo stesso allenatore che, in un’altra notte da Lupi, quella del 20 maggio scorso, ci spinse a strappare a morsi la permanenza in serie B.

Inutile girarci attorno. È almeno da ottobre che ci domandiamo cosa sarebbe accaduto se…? Perché la rosa messa a disposizione di Pierpaolo Bisoli (a parte Nicolussi Caviglia, che infatti è finito alla Salernitana, Masiello e pochi altri) faceva credere che i biancorossi sarebbero stati una delle vittime sacrificali del torneo. Calciatori come Mazzocchi erano stati spesso accostati ai colori rossoblù, altri (Carretta, Larrivey e D’Orazio) lo erano stati o sono tornati a esserlo. E, insomma, non mi pare che pur avendo la birra Forst alle spalle lì a Bolzano abbiano speso per la squadra più di quanto io abbia fatto nella mia vita in bevande fermentate a base di malto d’orzo e luppolo.

Una bellissima tavola di Escher mostra due mani che si disegnano a vicenda. Sembra un’assurdità, ma la realtà è proprio questa roba qui. Le piazze del calcio e l’allenatore di una squadra fanno lo stesso. E così un tecnico con la propria squadra. Non esistono squadre perfette o squadre nate forti. Non esiste una redazione giornalistica con trenta Bob Woodward e nemmeno una squadra di calcio con undici Maradona, nemmeno nel calcio degli sceicchi. Esistono invece contesti capaci di trasferire forza e convinzione a tutte le componenti. E di diventare in questo modo vincenti.

E il contesto calcistico a Cosenza che ho conosciuto io, e molti di voi, non era diverso da quello in cui sta lavorando Bisoli a Bolzano. Il Cosenza degli anni Novanta non era solo Gigi Marulla, Negri, Lucarelli e via dicendo, ovvero i top player che spesso citiamo con una certa nostalgia. Il Cosenza di quegli anni lì era fatto anche da allenatori spesso ai primi passi (Reja, Silipo, Zaccheroni) o in cerca di rilancio (Giorgi), calciatori esperti (Coppola, Evangelisti, Napoli) e giovani (Brogi, Di Cintio, Lemme). Ed era proprio quel gioco del disegnarsi a vicenda che permetteva ad Angelo Aimo di segnare, da libero, cinque gol nelle sei partite decisive che ci portarono allo spareggio di Pescara. Che convinse Antonio Serra a non cedere subito Biagioni e Compagno, ma di tenerli un altro anno ancora. Che spinse il nostro vecchio ferro di cavallo a una “ola” durata quasi mezz’ora, quando credevamo di averlo finalmente acciuffato, quel sogno.

Il Cosenza che ha giocato a Bari i primi quarantacinque minuti era la stessa formazione che ha iniziato il secondo tempo. Ma, se in panchina hai un allenatore calato in un contesto al di sopra delle sue possibilità, è normale che negli spogliatoi, dopo un rigore parato al 45’, invochi la Maginot nella ripresa sperando di sfangare il pareggio.

E tuttavia è ugualmente chiaro che la colpa generale non sia tutta di Viali. E nemmeno di Rigione che non marca stretto Cheddira sul gol (mentre qualcuno dovrebbe tampinare a uomo i suoi account social). Nessuna delle mani del disegno di Escher, infatti, trent’anni fa si sarebbe azzardata a disegnare una situazione come questa. Ed è normale che le mani, allora, continuino a disegnarsi tutte male a vicenda. La curva pretende rispetto da una dirigenza che non ha il minimo senso di sé (figuriamoci di ciò che le sta intorno) e costruisce una squadra senza la più pallida idea di cosa voglia ottenere (a parte il profitto) e la mette in mano a un allenatore costretto a salire su un treno in corsa senza conoscerne la destinazione.

E quindi, per quanto mi riguarda, come cantavano i miei amati Motorpsycho, siamo proprio a quel punto in cui la fine di un circolo è l’inizio della linea. Siamo davanti allo sliding doors perfetto: il Sudtirol vince e corre verso il suo sogno, mentre noi sprofondiamo; il Cosenza si scrolla di dosso le paure, lo batte e agguanta un Brescia in crisi nera, mentre i biancorossi vengono risucchiati dal sestetto alle loro spalle. Per carità, la classifica in zona retrocessione continua a essere corta, ma la verità è che, se nelle prossime tre gare non si fanno punti pesanti, si resta chiusi in un quartetto di squadre destinate all’agonia.

Quale delle due Helen Quilley saremo, alla fine della storia? Nella magica notte del 10 giugno 2018, lo decidemmo con le nostre forze. Disegnandoci tutti a vicenda, come le mani di Escher: Braglia, Baclet, l’urlo dei ventimila, l’autogol di Frascatore. Stavolta, invece, il Marulla sarà desolatamente vuoto. E forse niente più di questo dovrebbe trasmettere a chi timona la nave il senso del proprio fallimento.

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