L’Aifa restringe i criteri per la prescrizione della vitamina D: «Nuovi studi escludono benefici nei sani»
La presidente della Società italiana di endocrinologia ribatte: «Questa stretta ha motivazioni economiche ma è miope dal punto di vista clinico»
L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha aggiornato i criteri di appropriatezza prescrittiva di vitamina D per la prevenzione e il trattamento degli stati di carenza nell’adulto, in base a nuove pubblicazioni scientifiche che hanno ulteriormente chiarito la mancanza di benefici per Covid e per le ossa nei sani.
«L’apporto supplementare di vitamina D è uno dei temi più dibattuti in campo medico, fonte di controversie e di convinzioni tra loro anche fortemente antitetiche», precisa Aifa. La nota 96 era stata pubblicata nel 2019 per limitare la prescrizione a carico del Sistema Sanitario Nazionale di vitamina D e suoi analoghi (colecalciferolo, calcifediolo).
L’aggiornamento previsto con la nuova determina (48/2023) è stato pubblicato ieri in Gazzetta ufficiale ed è stato reso necessario dalle nuove evidenze. In particolare, sono stati presi in considerazione i risultati di due ampi studi clinici randomizzati, lo studio americano Vital pubblicato sul Nejm nel 2022 e lo studio europeo Do-Health pubblicato su Jama nel 2020. Entrambi hanno concluso che la supplementazione con dosi di vitamina D più che adeguate (2000 UI die di colecalciferolo) e «per diversi anni non è in grado di modificare il rischio di frattura nella popolazione sana, senza fattori di rischio per osteoporosi».
A questi studi si aggiunge la letteratura sull’utilizzo nel Covid-19. «Nonostante i dati epidemiologici che sembravano legare il contagio e la gravità del Covid alla carenza di vitamina D, l’efficacia della vitamina D nella lotta al Covid è stata smentita da studi progettati e condotti in modo corretto» e «al momento attuale non esistono elementi per considerare la vitamina D un ausilio importante per la lotta contro il coronavirus».
Con l’occasione, sono state inserite nel testo della nota alcune precisazioni su proposta di clinici o società scientifiche che includono, tra gli altri, un paragrafo «sui potenziali rischi associati all’uso improprio dei preparati a base di vitamina D».
«La nuova stretta basata su una logica economica ma non clinicamente valida»
«Studi sperimentali mostrano quanto sia importante per tantissimi apparati, da quello immunitario a quello scheletrico. Varrebbe la pena studiare meglio questo ormone, con studi clinici ampi e complessi, che ne valutino l’impatto sullo stato di salute generale della persona». A spiegarlo ad Ansa è Annamaria Colao, presidente della Società Italiana di Endocrinologia (Sie) che commenta così l’aggiornamento alla nota 96 dell’Aifa.
Sintetizzata con i raggi del sole e diventata famosa come cura contro il rachitismo infantile, la vitamina D è da sempre usata per fratture dovute a osteoporosi, ma non solo. È prescritta a donne in gravidanza per evitare deformazioni del feto, ai neonati nei primi mesi di vita, ai bambini durante la crescita per potenziare l’apparato immunitario. «Capisco – precisa la professoressa Colao – il ragionamento economico alla base della nuova determina, ma è miope dal punto di vista clinico: la vitamina D in circolo è un parametro di buona salute, mentre la sua carenza è legata a un elevato livello infiammatorio nell’organismo, con tutte le malattie collegate. È un composto che ha recettori in tutte le cellule, il suo deficit è correlato allo sviluppo di tumori, al peggioramento di obesità e diabete, all’aumento dell’ipertensione».
D’altronde oggi assorbiamo molta meno vitamina D rispetto a decenni fa, «prima i bambini andavano in colonia e stavano al mare 3 mesi e giocavano molto di più all’aperto».
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