25 APRILE | Cosenza e quella cartolina del ’45: gloria eterna ai partigiani
Quella notte alla villa ballavano i giovani lavoratori socialisti con le loro compagne sottoccupate, i ragazzini cui si diceva che bombe e carestie erano finite per davvero, le donne che ancora non avevano i diritti politici
Il 25 aprile del 1945 ci fu nella serata cosentina una improvvisata festa di ballo. Fotografava non tanto l’inizio di una nuova era, quanto l’istantanea di ciò che già c’era.
Nelle province del Sud Italia il fascismo istituzionale fu un fenomeno parassitario e mimetico. Le troppe diseguaglianze politiche e sociali, la marginalizzazione anche violenta della vera (e ridotta) opposizione civile, la conservazione del potere e la struttura amministrativa di territori abbandonati a se stessi avevano fatto del fascismo un cappottone sgualcito dove i più forti, chi più chi meno, avevano potuto accaparrarsi senza troppo affanno i pezzi di stoffa più caldi.
Forse è questo l’unico vero tratto trasformativo della parabola mussoliniana: rendere il sistema molto più avvolgente di ogni spinta antisistema. Se il fascismo delle origini, quello di San Sepolcro o persino della marcia su Roma, aveva lucrato su una propaganda vagamente insurrezionale, Mussolini trasformò rapidamente, suturando ogni spazio, il Partito Nazionale Fascista nel partito Stato corporativo, capace di occupare ciò che oggi si chiamerebbe welfare ed enti locali. Se la destra era prima antisistema e antiborghese, nel corporativismo divenne invece il guardiano dell’ordine assoluto: nella società meridionale era agevole salire sul treno dei vincitori e lì restare sul proprio vagone. Chi in corridoio, chi in cuccetta.
L’antifascismo cosentino, pur piccolo, aveva tante, forse, troppe facce, che fisiologicamente militavano interessi di classe (e di vita) diversi fino a sembrare inconciliabili. Nel blocco social-comunista, c’erano calabresi impegnati nella resistenza al Centro e al Nord. C’erano intellettuali e sediziosi in città che però non esercitarono mai un contropotere effettivo durante il ventennio. E c’era, peraltro più cospicua delle apparenze, una extralegalità dal basso che interessava, ma non a un livello pieno di cospirazione politica, soprattutto il sottoproletariato. C’erano infine i futuri notabili della repubblica che antifascismo militante ne avevano fatto pochino (sarà così anche in Campania e in Sicilia) e che nel nuovo ordine avrebbe rivendicato la loro imprescindibile appartenenza al governo, all’amministrazione e alle professioni.
Il fascismo afascista si preparava a diventare antifascismo istituzionale: se già il corpo sociale della resistenza non coincide, se non con qualche forzatura di troppo, con la costituente (dove gli anarchici, gli internazionalisti, le minoranze etniche e religiose?), lo scarto tra costituente e arco democratico-parlamentare si allargò ulteriormente. Erano stati antifascisti tutti i quadri locali dei partiti centristi? Erano stati antifascisti la destra liberale e la componente conservatrice della destra sociale?
Quella sera, però, non c’era tempo di pensare a queste cose. Il popolo meridionale, per ragioni antropologiche ben note agli storici (Banfi, Banti, Ginsborg e tanti altri), così scottato dal pugno di ferro che avevano esibito i piemontesi insieme ai gattopardi, ben prima di prefetti e podestà, ebbe sovente un profilo mansueto, di libertà negoziata nelle maglie dello status quo, di opposizione sociale permanente o troppo radicale per farsi immaginario o troppo frammista per farsi antagonismo…
La nostra antropologia per trascinamento guarda più alla tumultuosa suggestione dell’attimo e alla consuetudine in marcia nel vissuto concreto che non alle istituzioni politiche e giuridiche. Quella notte alla villa ballavano i giovani lavoratori socialisti con le loro compagne sottoccupate, i ragazzini cui si diceva che bombe e carestie erano finite per davvero, le donne che ancora non avevano i diritti politici, gli anziani scesi dai balconcini, gli antifascisti col fegato intossicato da decenni di una sopportazione strisciante più becera e ulcerante dell’olio di ricino.
Quel mondo non si contava, non è mai tempo di dividersi nell’orgasmo di una gioia che non si comprende appieno. Le prime amministrazioni hanno una elevata presenza democristiana e una tenace partecipazione di componenti sociali che non si erano opposte alla politica romana. Fu simile come per gli arrestati per cospirazione dopo l’unità: Borboni o Savoia, spesso gli stessi i nomi dei perseguitati. Così alla liberazione i consigli e le prefetture: dalla coazione a ripetere dei vinti alla continuità naturale dei vincitori. C’erano reduci di guerra ormai delusi da ogni divisa e da ogni ministro: nessuno per loro farà più che un trafiletto sui manuali di storia. E quella città e quella terra dove il pensiero di lotta e trasformazione è sovente strangolato nella contraddizione di essere comunque e sempre la parte più generosa e abnegata nel suo contesto di sfruttamento…
Ballava tra le musichette intrecciate alle vene dell’edera. La notte di aprile a Cosenza è bella come una poesia di Eliot: esci in un lenzuolo di tepore e all’alba hai le braccia gelate dal giubbino che non hai portato dietro. Ballavano domestiche e lavandaie, guappi e sindacalisti, ragazzini e maestri di scuola, sarti e carbonari senza tempo. Si riposizionavano gli equilibri nelle segrete stanze, non in quella piazza timida ad afferrare il presente e a pensarsi il futuro: forse perché non s’era fatto abbastanza i conti col passato. È a largo Partigiani una delle più belle vedute della città: da lì si vede dove nel 1945 danzavano e muovevano gli orli dei vestiti speranzosi di risalire il ginocchio, e la china del tempo. Gloria eterna al 25 aprile, gloria eterna alla Cosenza antifascista.