25 APRILE | Dalena: «L’ANPI è un baluardo. Oltre 600 cosentini parteciparono alla Resistenza»
Il presidente provinciale dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia: «Esiste un protocollo col MIUR che ci ammette nelle scuole nonostante le astiose circolari del ministro Valditara. In ANPI si fa memoria e si studiano la storia e la Costituzione: il miglior antidoto contro i fascismi»
Matteo Dalena, storico e giornalista, è il presidente dell’ANPI Provinciale di Cosenza sezione “Paolo Cappello”. Da anni si batte per conto dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia rivendicandone un ruolo centrale in virtù dei valori portati avanti. Nell’intervista rilasciata al nostro network spiega il perché i valori di ottant’anni fa siano attuali e attualizzati, ma anche perché il pericolo fascismo non sia rappresentato dal fez e dall’olio di ricino, bensì da atteggiamenti che mirano a relegare i deboli nell’incertezza normativa e nell’anonimato della società. «In ANPI – dice – si studia e si pratica la Costituzione, il miglior antidoto possibile contro i fascismi».
Qual è nel 2023 il significato dell’ANPI?
«L’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia è necessaria a rammentare ogni giorno quello sforzo collettivo che settantotto anni fa portò uomini e donne a combattere per la libertà dal nazifascismo. Che è, ad esempio, la mia libertà di rispondere senza nulla temere a domande come queste, o la sua di poter scrivere un articolo di giornale scegliendo le parole e i concetti che reputi siano i più giusti, senza che la sua testata venga chiusa, le copie del suo giornale date alle fiamme nella pubblica piazza e lei stesso spedito al confino di polizia. Al di là di questi e altri possibili esempi, l’ANPI oggi è fondamentale per rammentare a tutti che la libertà che è scaturita dalla Resistenza e dalla Guerra e le istituzioni democratiche che ne sono il frutto, rappresentano conquiste per nulla scontate e vanno difese ogni giorno da chi vuole metterle in discussione. In tutta la provincia di Cosenza siamo ben trecento iscritti a sei diverse sezioni (Provinciale, Amantea, Castrovillari, Paola, Presila e Savuto) a condividere questo “fremito” ideale.
Esiste lo spauracchio del fascismo e che forme ha?
«Sa, non penso più tanto a Forza Nuova o Casa Pound. La destra che attualmente detiene alcune delle cariche istituzionali più importanti in questo Paese ha un’indubbia matrice post-fascista. Non perdono occasione di rammentarcelo con periodiche dichiarazioni impregnate di revisionismo storico, che si chiama uso politico della storia, o con un’attività parlamentare volta a far compiere enormi passi indietro al Paese dal punto di vista dei diritti LGBT. Per stare a quest’esempio: se il fascismo relegava i cosiddetti “pederasti”, “invertiti” o “deviati” in remote colonie penali come quella di Ventotene, oggi si cerca di relegarli in nome della medesima matrice tradizionale nell’incertezza normativa e nell’anonimato della società, nel non riconoscimento giuridico della loro essenza. Ci troviamo più in generale a fare i conti con una serie di comportamenti e atteggiamenti che del fascismo sono più o meno diretto retaggio ed emanazione: razzismo, omofobia, sessismo, machismo, bullismo, sfruttamento, etichettamento e messa ai margini della cosiddetta devianza, violenza fisica e verbale, annichilimento dell’avversario. Sono tutte componenti che inevitabilmente ci riportano all’uomo forte fascista e al suo desiderio di primeggiare su tutto e tutti».
Spesso una delle accuse che arriva è che dietro “l’antifascismo” di piazza si celino violenti. Come risponde?
«Che la violenza è sempre e comunque da condannare. Perché esiste sempre un’alternativa allo scontro. Il pugno o la randellata, da qualunque parte essi vengano, rappresentano una sconfitta della ragione. Altra cosa è chi utilizza lo stereotipo di un “antifascismo violento” per screditare un intero movimento che sostanzialmente è non violento e pacifista per sua stessa natura. La demolizione non solo fisica ma anche verbale dell’avversario non appartiene all’ANPI e ciò ci viene riconosciuto anche dal fatto che sono sempre più esponenti delle forze dell’ordine a richiedere la tessera. Poche settimane fa è stata costituita a Roma una sezione ANPI formata da appartenenti alla Polizia di Stato che si sono impegnati a tutelare la sicurezza dei cittadini nella libertà, nella giustizia sociale e a fungere da argine alla violenza e sostegno alla legalità democratica. E non è poco se pensiamo ai casi Aldrovandi, Uva, Cucchi».
L’Anpi in Calabria non ha la stessa valenza che può avere in Emilia-Romagna o in Lombardia? È tutto proporzionale a 80 anni fa?
«La Guerra di Liberazione si è combattuta al Nord e al Centro Italia ma è stata fatta da migliaia di meridionali, operai che già da decenni si spaccavano la schiena nelle fabbriche del Piemonte o della Lombardia o gente del sud che partì volontariamente lasciando le proprie terre. Molti calabresi hanno contribuito alla formazione di brigate partigiane, ricoprendo ruoli apicali al loro interno. Se il Meridione ha partecipato a pieno titolo alla Guerra di Liberazione allora è normale che esista una forte e sentita memoria collettiva o famigliare, scritta oppure orale, che ci spiega perché ha la medesima valenza “fare ANPI” in Calabria, in Emilia, Lombardia o Piemonte. Le dirò di più. Se al Centro-Nord fare memoria è più facile per la capillare presenza di simulacri (penso ad esempio al Parco regionale storico di Monte Sole tra Marzabotto e Monzuno) o archivi o istituti specifici, qui al Sud è più complicato e proprio per questo richiede un esercizio di memoria e indagine maggiore e quindi uno sforzo in termini di sensibilità umana e di passione non indifferente.
Quanti furono i partigiani cosentini?
«Stando ai dati del “Fondo ANPI”, custodito all’UNICAL dall’Istituto Calabrese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea, i residenti della provincia di Cosenza che parteciparono alle varie fasi della Guerra di Liberazione furono oltre seicento. Ed erano soprattutto contadini, manovali, artigiani, macellai, impiegati e studenti che dallo Ionio al Tirreno Cosentino, dal Pollino al Savuto, a un certo punto della loro esistenza decisero di lasciare le loro occupazioni, la loro terra e gli affetti per trasformarsi in combattenti per la libertà. Esplorarono luoghi sconosciuti, vette fino ad allora inimmaginate, dal Piemonte al Montenegro, in Lombardia e in Emilia-Romagna, cadendo e rialzandosi, crivellati dal piombo dei nemici della libertà.
Ha senso che un ragazzo di 20 anni si iscriva all’Anpi, un’associazione che fa riferimento a fatti accaduti 80 anni fa?
«Fa riferimento a fatti di ottant’anni fa, ma proprio questi accadimenti storici ci hanno fatto cittadini liberi di pensare, esprimerci e muoverci. L’ANPI può dare un’impronta educativa in termini di civiltà e umanità enorme. Non a caso esiste un protocollo col MIUR che ammette l’ANPI nelle scuole nonostante le astiose circolari del ministro Valditara. In ANPI si fa memoria e si studia la storia: il che dovrebbe portare in buona sostanza chi la pratica a non ripetere gli errori del passato. In ANPI si studia e si pratica la Costituzione, il miglior antidoto possibile contro i fascismi.