mercoledì,Giugno 7 2023

Pierpaolo Perretti, professore controcorrente che sogna una scuola senza più voti

Docente di italiano, latino, storia e geografia nei due licei di Rende, è autore di un libro che scardina il sistema di valutazione del rendimento in vigore: «Sono convinto che una fredda media numerica non dica niente sull'effettivo percorso intrapreso dagli studenti»

Pierpaolo Perretti, professore controcorrente che sogna una scuola senza più voti

«Una madre che fatica a partorire i propri figli». Docente di italiano, latino, storia e geografia presso il liceo classico “Gioacchino da Fiore” e lo scientifico “Pitagora” di Rende, il professor Pierpaolo Perretti usa una metafora per descrivere le attuali condizioni in cui si trova il sistema scolastico italiano, al quale ha dedicato il libro “Perché (non) andare a scuola”, edito da Rubbettino e pubblicato nel luglio del 2022.

Professor Perretti, perché ha deciso di scrivere questo saggio?

Il libro è nato dalla grande sofferenza che puntualmente mi accompagna sul finire dell’anno scolastico, quando arriva il momento di elaborare le valutazioni sul rendimento degli alunni. Ho avvertito la necessità di dare sfogo a questa mia incertezza.

Lei definisce i voti “maledetti”. Non le sembra di esagerare?

Assolutamente no. I voti non esprimono il livello medio dei ragazzi e rappresentano uno dei problemi fondamentali della scuola: da anni, vengono considerati un fine e non un mezzo. Si va a scuola per essere promossi e non per apprendere, e questo purtroppo vale anche per le famiglie che badano soltanto al risultato formale. I ragazzi si aspettano dal voto una verità assoluta.

A pagina 28 lei scrive: “Qualunque voto io metta sarà errato. Fa parte dei miei doveri e mi comporto di conseguenza, ma quest’operazione non serve a niente”

Il voto spesso diventa ingannevole. Le dimensioni dell’apprendimento e quindi i criteri di cui tener conto per una corretta valutazione sono numerosissimi e vanno al di là delle semplici verifiche. Pertanto, una vera sintesi in forma numerica, a mio parere, è semplicemente impossibile. La valutazione di fine anno diventa una forzatura, spesso illusoria, che comunica ben poco all’alunno e alle famiglie. Nel libro ho provato a spiegare dettagliatamente queste dinamiche.

Professore, proviamo a “dare i numeri”. Un paragrafo del suo libro ha questo titolo: “Il 6, le verità nascoste”. A cosa si riferisce?

Vede, dalle valutazioni dei docenti dipende il destino della scuola che è diventata a tutti gli effetti un’azienda. La percentuale di promozioni incide sul numero delle iscrizioni che si avranno nell’anno successivo. Da anni, ormai, molti colleghi usano come voto minimo il 6. Questo li aiuta a sentirsi anche meno “colpevolizzati”.

1, 2 e 3: l’offesa è dietro l’angolo…

Io questi voti non li uso più da un pezzo perché, appunto, li considero offensivi. In quasi tutte le scuole, se fai scena muta all’interrogazione, ormai ti becchi non meno di 4, se invece riesci a mettere insieme due parole, ti porti a casa un 5 e così via.

In un capitolo successivo, lei scrive che “i voti logorano i rapporti”: non sarà che ci si preoccupi fin troppo della suscettibilità degli alunni e, di conseguenza, di quella dei loro genitori?

Il rapporto educativo è di tipo personale. Mi spiace dirlo, ma la percezione che i miei studenti hanno di me è filtrata dal voto che io esprimo sul loro rendimento scolastico: le mie parole, le mie spiegazioni, finanche la mia preparazione passano in secondo piano perché gli alunni preferiscono un professore che dà dieci e insegna poco a uno che mette voti bassi ma trasmette tanto. E tutto questo, purtroppo, toglie sapore alla scuola.

Non può cavarsela così: in alternativa al sistema in vigore, lei cosa propone?

Si potrebbe immaginare di trasformare i decimi in centesimi: ciò consentirebbe una maggiore differenziazione tra i singoli ragazzi. Personalmente non ho dubbi: bisogna tornare a una tipologia di giudizio articolato che prenda in esame la capacità di espressione e di ragionamento. Sarebbe più utile anche per le famiglie. Sono convinto che una fredda media numerica non dica niente sull’effettivo percorso intrapreso dagli studenti. L’attuale standard di valutazione non è in grado di spiegare se l’alunno si stia realmente impegnando oppure no.

Esami di stato: la notte senza luce“. Professore, ci aiuti a capire. Così rischia di mettere in crisi generazioni di diplomati e trasforma in carta straccia il tanto agognato diploma che qualcuno ha pure incorniciato

Voglio semplicemente dire che le prove degli esami di stato, così come si svolgono, non sono coerenti con la preparazione reale dei ragazzi. Mi riferisco soprattutto alle seconde prove scritte. Nessun professore affermerebbe mai: «Nelle mie quinte tutti gli alunni sono in grado di svolgere le seconde prove da soli» e non lo dico neanch’io, perché semplicemente non sarebbe vero.

Dalla notte senza luce all’atmosfera lugubre degli esami di riparazione. Questa volta, cosa c’è che non le va a genio?

A settembre tutti gli studenti rimandati vengono generalmente promossi, la frase ricorrente è: «In fondo si tratta di una sola materia». Ma è soltanto un modo per levarsi dall’impiccio, dal momento che è praticamente impossibile riuscire a recuperare nei mesi estivi il percorso che l’alunno non ha compiuto durante un intero anno scolastico.

Professore, la sua analisi è impietosa: lei non salva neanche l’orientamento e gli open day organizzati dagli istituti per aiutare gli studenti a scegliere la scuola più in linea con le loro capacità

Al contrario, è proprio questo il punto. Non nego che i ragazzi abbiano bisogno di qualcuno che sia in grado di indirizzarli e consigliarli quando giungono in terza media o alla fine del liceo. Il guaio è che si tratta di puro marketing: ti oriento verso il mio istituto anche se sono consapevole che per te non sia la scelta migliore. Non possiamo applicare la logica che sta alla base della pubblicità al mondo della scuola e non possiamo trattare gli studenti come fossero clienti o, peggio ancora, merce da aggiudicarci a tutti i costi: molti di loro, in un altro istituto, otterrebbero sicuramente maggiore successo.

I suoi colleghi che hanno letto il libro non saranno stati contenti di sentirsi definire “docenti appiattiti su obiettivi mediocri”. Dica la verità!

Alcuni tra loro hanno fatto finta di niente, altri mi hanno fatto sapere di pensarla esattamente come me. I dirigenti l’hanno considerata una buona provocazione, intorno alla quale ragionare insieme: in fondo, il mio obiettivo era di aprire un dibattito quanto più possibile costruttivo. L’espressione “docenti appiattiti su obiettivi mediocri”, che ha appena citato, ha un significato chiaro: tutti noi in fondo abbiamo abbassato i nostri obiettivi perché, negli anni, si sono ridotti quelli dei nostri studenti».

Eppure, quello di insegnante è un mestiere ancora molto agognato

Anche se i nostri stipendi sono i più bassi di tutta Europa, l’insegnamento rimane un lavoro che offre una certa tranquillità economica.

Anche lei professore insegna soltanto per portare a casa uno stipendio sicuro?

Io insegno per vocazione: è sempre stato il mio sogno, sin da quando frequentavo il liceo. Purtroppo però le motivazioni, anche quelle più profonde e autentiche, si scontrano con la realtà.