lunedì,Novembre 11 2024

La social card si è fermata ad Eboli

L'ammortizzatore scandinavo non può arrivare in Italia, come non può arrivarci l'assicurazione texana sulla vacanza lavorativa tra un impiego e l'altro

La social card si è fermata ad Eboli

Il termometro dell’auto impazzisce nei piccoli tronconi roventi della strada interna tra Sila Greca e Sila Grande. La radio gracchia come un GPS sfasato, un radiatore con la raucedine e la cassa in quattro quarti. Tra zaffate d’afa e pulviscoli sollevati dall’attrito delle ruote su laghi ridotti a deserto, una compita giornalista dice che ogni dodici mesi centomila giovani meridionali laureati lasciano la linea gotica dell’autonomia differenziata e si trasferiscono a Nord. Messi a servizio su tutte le unghie del comparto produttivo.

Ce ne è di lavapiatti e parcheggiatori, dog sitter e metronotte, persino spacciatori… Ma soprattutto giovanissime e giovanissimi spesso di media alta: un mercato delle braccia e delle menti che va in onda col silenzio del vento grecale che asciuga e affoga e difficilmente rimbomba. Mastico uno stopposo caffè alla stazione di servizio e vedo davanti quello che succede: albergucci un tempo semivuoti e camionette di panini aperte una volta solo per i concerti alternano oggi paninelli e braci, calici e teglie. Borbotto aprendo il giornale.

Un tedesco con la pancia larga una botte mi chiede se conosco Carducci. Negativo: non mi piace la poesia italiana ufficiale, non amo i vigneti della Val di Cecina. Due giovani lombardi si baciano tre tavoli della Sammontana più avanti, ingenui e vogliosi. La questione è semplice, mi dice vuotando la pipa il proprietario: torna la gente che lavora fuori e sparge la voce; noi viviamo un mese all’anno per fare un presepe che non c’è. Le gite in barca, i musicanti, la bancarella di cuoio, la pizza a pala… E ben venga. Ma è teatro: teatro che una pandemia, o un coprifuoco o due settimane in più di quaranta gradi all’ombra possono spezzare con la grazia di un cerino che si frattura la schiena contro il malto di una mattonella scarrellata.

Sono in giro perché sono andato a trovare un amico fraterno, un vecchio gesuita che schiva gli infarti come un ultras incappucciato fa con i DASPO. Ho saggiamente dribblato la conferenza stampa sulla nuova “social card” del governo Meloni. Tanti colleghi economisti mi avevano suggerito di fare un’affacciata. Mezza giornata tra Arenula e Palazzo Chigi, una carbonara e poi via col notturno. Ho declinato, memore della fornace di Tiburtina quando si erano fermati i treni e novello Fantozzi nel caldo di mezzogiorno vedevo l’Annunciazione insieme a famiglie, anziani, studenti e pendolari di ritorno sui binari della stazione alveare (più che astronave, spiace per Alemanno).

Per impostazione politica, non ho mai avuto alcuna simpatia per il reddito di cittadinanza attuato a quel modo: credo piuttosto al supporto reddituale universale modulato rispetto ai vari percorsi, mestieri e bisogni domestici. Vivendo tra le nuvole, e non sugli alberi, ho però toccato con mano che il reddito di cittadinanza ha offerto un nucleo duro di piccole risorse a tanti senza lavoro. Gli usurpatori (che fossero affiliati alle cosche o pluritenutari di barche) non sono riusciti a spiegarmi la sua dannosità, semmai mi hanno convinto della opportunità di un monitoraggio non punitivo ma vero sulle necessità sostanziali diffuse. L’ammortizzatore scandinavo non può arrivare in Italia, come non può arrivarci l’assicurazione texana sulla vacanza lavorativa tra un impiego e l’altro: noi abbiamo Sila e Tavoliere, mica Texas e fiordi.

Peraltro, la forza politica del presidente del Consiglio ha sempre tirato veleno sul reddito di cittadinanza, ma in modo ambiguo, ammettendo del pari la sempre opportuna presenza di sussidi sociali. Tre alleati su tre hanno invece costruito la loro campagna contro il reddito. È che senza conguaglio di assistenza sociale salta il banco, la gente sta male. Quindi ecco questa carta “dedicata a te” con acquisti previamente decisi: ad esempio, il pesce fresco per la “filiera della patria” (stupidaggine, il pesce fresco ha una filiera più corta, a gomito), il pesce surgelato no: alimenta le multinazionali. Penso ai bambini delle mense scolastiche: esatto, multinazionali anche loro.

Si fa l’ora di andar via. Chiacchiero con tre giovani calabresi dai 24 ai 33 anni: un imbianchino, una traduttrice e un agente assicurativo. Sono felici di gustarsi Tennent’s e salsiccia con dieci carte: dalle loro parti, col deca, dovrebbero scegliere o la scozzese o il panino alla piastra. Davanti a queste possibilità, chiaramente l’impresa ristorativa di base si rialzerà fino a tutto agosto: sarà un po’ meno conveniente per loro e un po’ più gravosa per noi. In compenso, al tempo del governo patrio, centomila sudditi tra settembre e maggio cambieranno legione e prefettura.

Perché picchiarsi per l’autonomia differenziata e le gabbie salariali? Sono già davanti a noi. E anziché ridurle qualcuno vuole sancirle per sempre. Ricarico il caffè in questo piccolo comune di lago di cui a settembre dimenticheremo pure il nome. Mentre la tazzina fuma un po’ nel prisma della vetrata, arriva una notizia ancora: la diagnostica per i malati gravi viaggia con mesi di ritardo. Mi auguro che le lastre non le facciano mai col pesce congelato. Persino al tempo dell’inquisizione i percossi sapevano con quale scudiscio sarebbero stati abbattuti espiando i loro peccati non commessi. Un vecchio confuciano scrisse un libro per spiegare: maledetto il governante quando non sa che il governato ha l’asma. Figurarsi l’embolia…