«Il clan Presta? In 30 anni di processi mai nessuna prova della sua esistenza»
"Valle dell'Esaro" è alle battute finali. Lunga e articolata discussione dell'avvocato Lucio Esbardo sull'ipotesi associativa e sull'aggravante dell'agevolazione mafiosa. Infine, l'intervento del legale Mario Scarpelli
Da 30 anni la magistratura del Distretto giudiziario di Catanzaro tenta di dimostrare l’esistenza del clan Presta di Roggiano Gravina, ma nessuna prova è emersa nei numerosi processi svolti nelle aule di giustizia. È quanto sostenuto dall’avvocato Lucio Esbardo, difensore, tra gli altri, di Antonio Presta e Giuseppe Presta, ritenute le persone al vertice della presunta associazione a delinquere dedita al narcotraffico operante in diversi comuni della Valle dell’Esaro (LEGGI QUI LE RICHIESTE DI CONDANNA)
Il richiamo a Franco Presta
Il penalista cosentino è stato il primo a prendere la parola davanti al collegio giudicante del tribunale di Cosenza. Dieci le posizioni discusse, alcune già affrontate dagli altri co-difensori nelle sedute precedenti. Unico comun denominatore: smontare la sussistenza dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa e l’ipotesi associativa. Per fare questo, il legale Esbardo ha ripercorso la storia processuale del suo cliente più noto: Franco Presta. Quest’ultimo, oltre ogni ragionevole dubbio, è stato condannato nei vari processi sugli omicidi di mafia avvenuti in provincia di Cosenza. Ma riguardo all’esistenza di un gruppo criminale che farebbe capo a lui, tutte le sentenze citate dall’avvocato Esbardo hanno acclarato il contrario di quanto sostenuto dalla pubblica accusa: la cosca Presta non esiste.
I processi del passato
Al fine di risultare credibile agli occhi dei giudici, il penalista ha rimarcato pure il fatto che Franco Presta negli ultimi 30 anni ha fatto parte di un sodalizio, che non è quello di cui lui sarebbe il capo. E quale allora? Il clan “Lanzino” di Cosenza. Ma non solo. La ricostruzione difensiva ha toccato anche altri aspetti. Nell’intervento sono state menzionate, tra le altre, le sentenze “Esaro“, dove l’accusa era rappresentata dall’allora procuratore antimafia Salvatore Curcio, “Tamburo“, “Visigoti“, “Santa Tecla” e infine “Step by step“. Quest’ultimo processo, secondo il penalista, ha dato la prova dell’insussistenza del clan Presta, esclusa dai giudici di Cosenza con il mancato riconoscimento dell’aggravante mafiosa, che ha determinato una sentenza per intervenuta prescrizione.
La latitanza del killer
Si trattava dell’indagine della Dda di Catanzaro relativa alla latitanza di Franco Presta, arrestato dalla Squadra Mobile di Cosenza, in un appartamento situato nel quartiere Arcavacata di Rende. Ebbene, gli imputati di quel procedimento erano stretti familiari del killer ma, tranne Francesco Ciliberti, nessun altro soggetto a giudizio in “Valle dell’Esaro” era rimasto coinvolto nell’inchiesta sui presunti favoreggiatori di Franco Presta. Men che meno Antonio, Giuseppe e Roberto Presta. L’avvocato si è quindi domandato come sia stato possibile che la procura antimafia di Catanzaro abbia contestato, nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, l’aggravante dell’agevolazione mafiosa applicata all’ipotesi associativa sul narcotraffico. Nessun elemento utile sarebbe emerso dopo l’ordinanza cautelare di “Valle dell’Esaro” per contestarla.
L’altro ragionamento esposto ai giudici di Cosenza è stato quello secondo cui Franco Presta nel corso degli anni non ha mai avuto contestazioni in materia di spaccio di droga. E qui l’avvocato ha interpretato il pensiero del suo cliente, “vecchia scuola“, che escludeva di delinquere mettendo in circolazione sostanze che potevano nuocere alla salute.
I pentiti e la cattura di Luigi Abbruzzese
Il legale Lucio Esbardo è entrato quindi nel merito delle questioni dibattimentali, richiamando le dichiarazioni dei collaboratori storici, tipo Franco Bruzzese, che ha affermato di non conoscere Franco Presta «così come hanno fatto gli altri pentiti». E Antonio Presta? «Non lo conosciamo, hanno spiegato i collaboratori, fatta eccezione di Luciano Impieri che ha detto di aver appreso che avrebbero dovuto assaltare un furgone portavalori e di aver notato che Presta nel corso della sua permanenza in carcere non aveva rapporti con nessuno».
Qui allora è stato introdotto il tema del “sospetto”: «In aula è stato dichiarato che Presta avrebbe detto “se mi arrestano c’è chi sostituisce”. Nessuna prova è mai emersa», mettendo sul tavolo del collegio giudicante anche un’emergenza processuale già conosciuta, ovvero l’indagine antimafia sulla cattura dell’allora latitante Luigi Abbruzzese, da dove sarebbe partito il procedimento “Valle dell’Esaro“, grazie alla cimice piazzata nell’auto di Roberto Presta. Come se non bastasse, Esbardo ha ricordato prima a se stesso e poi alla Corte uno degli eventi di sangue più cruenti, avvenuto a San Lorenzo del Vallo, dove persero la vita in un agguato due donne legate da un vincolo di parentela ad Aldo De Marco, assassino di Domenico Presta, figlio di Franco. La Corte d’Assise di Cosenza già in primo grado aveva escluso l’aggravante dell’agevolazione mafiosa.
Le tre sentenze della Cassazione
L’altro passaggio è quello che porta dritti a “Reset“, la maxi inchiesta contro la ‘ndrangheta cosentina, dove i clan si sarebbero confederati tra loro. Tra questi anche il presunto clan Presta, i cui proventi illeciti – dicono i pentiti – avrebbero arricchito la “bacinella comune”. «Cosa arriva da Roggiano? Nessuno lo sapeva. Il loro riferimento è sempre Franco Presta, non il gruppo» ha spiegato Lucio Esbardo, il quale in una fase successiva ha mostrato tre sentenze della Cassazione su Giampaolo Ferraro, Michele Fusaro e Antonio Giannetta, per il quale gli ermellini avevano annullato con rinvio escludendo la sua partecipazione al contesto associativo. «Qual è il dato? Non si può stabilire né il pactum sceleris né tantomeno l’affectio societatis».
Il deposito, le schede e la struttura verticistica
Il discorso dell’avvocato è stato anche incentrato sulla Mercedes Classe B dove sono stati intercettati i colloqui tra Mario Sollazzo e Roberto Presta. Alla luce dell’istruttoria dibattimentale, ha sottolineato l’avvocato, il collaboratore ha detto che il deposito della droga non lo conosceva nessuno, in quanto si trovava in un pezzo di terra non coltivato, senza dimenticare che il puzzle investigativo era stato già messo in discussione dall’assoluzione di Massimiliano Mungo nel processo svoltosi con il rito abbreviato: si parlava di schede telefoniche intestate fittiziamente. La formula assolutoria è stata quella più ampia: “il fatto non sussiste”.
La struttura verticistica, ha aggiunto Esbardo, è stata intaccata finanche dal Riesame che ha revocato le misure cautelari di tre imputati: Antonio Orsino, Giovanni Petta e Salvatore Miraglia. Per non parlare dell’annullamento senza rinvio dell’ordinanza applicata in prima battuta ad Antonio Pacifico, il presunto custode delle armi dei Presta.
“Il miglior difensore del processo”
Infine, i temi rimanenti, forse quelli più importanti. Perché l’avvocato Lucio Esbardo, come hanno fatto in precedenza gli altri suoi colleghi, non si è dimenticato di richiamare quelle che sono state le domande poste dal presidente Ciarcia nel corso dell’istruttoria dibattimentale. Domande che vertevano sia sull’acquisto e sulla rivendita della sostanza stupefacente («l’acquistavano per poi rivenderla» aveva detto il pentito Presta) che sul pagamento degli “stipendi”. «Ha ragione l’avvocato Luca Acciardi quando ha dichiarato in aula che lei è stato il miglior difensore del processo», ha sottolineato Esbardo convincendosi che nessuna ipotesi associativa (art. 74) possa sussistere, al massimo, qualora fosse ritenuto valido l’assunto accusatorio che gli imputati parlavano di droga e non di altro, si concretizzerebbe un concorso tra due persone, come prevede l’articolo 110 del codice di procedura penale.
Caselle di Tarsia
In definitiva, secondo l’avvocato Esbardo, il collaboratore di giustizia Roberto Presta non ha offerto alcun elemento che possa confermare l’ipotesi accusatoria. In relazione a Giuseppe Presta, il legale ha ribadito che dagli atti processuali non c’è prova che lui avrebbe assunto un ruolo decisionale se il padre avesse abdicato, proprio perché la struttura di cui parla la Dda di Catanzaro non c’è. Ultima battuta su contrada Caselle, nel comune di Tarsia: «Se è vero che lì ci sono telecamere, ed è lì che sarebbero avvenuti gli scambi (droga e soldi), perché non ci sono le riprese degli scambi?» si è domandato Esbardo che per tutti i suoi assistiti ha chiesto una sentenza di non colpevolezza.
A concludere l’udienza di oggi c’ha pensato l’avvocato Mario Scarpelli, difensore di tre imputati. Nell’intervento, ha ricostruito le fasi investigative ritenendo che il processo non abbia dimostrato la partecipazione dei suoi assistiti all’associazione dedita al narcotraffico. Invocate dunque tre assoluzioni.