Quali sono i vostri fascisti?
Dovremmo pure chiederci chi siano oggi gli antifascisti, se siamo stati in grado di definire approssimativamente cosa sia stato e cosa sarà il fascismo da qui in avanti
Monta inspiegabilmente da giorni la polemica sulla mancata interpretazione in diretta RAI del monologo scritto di suo pugno, da parte di Antonio Scurati, e in sostanza contributo alla memoria storica sulla Resistenza e sul 25 Aprile. Diciamo subito che moralmente parlando i lati negativi sono essenzialmente due. Sul piano contrattuale della parola data, disdire in corner una prestazione concordata, ma divenuta sgradita. Sul piano politico della critica alle maggioranze, non concretizzare l’opportunità di uno spazio d’opposizione almeno solo simbolico-verbale. Pare poco…
E tuttavia sotto il profilo contenutistico quel monologo non ci pare scoprisse la ruota o redigesse l’Habeas Corpus. Il testo, per chi si occupa di fascismi nell’azione partecipativa dal basso e nondimeno nello studio scientifico, ha certo due aspetti importanti. Ricordare il delitto Matteotti è fondamentale per cogliere un clima che andava avvitandosi, appunto, un secolo addietro. E possibilmente si dovrebbe farlo non degradandone la vittima a “quel tale” sequestrato e ucciso dalle camicie nere: fare di Matteotti un martire e basta (senza vedere di quale testimonianza ha intinto il suo martirio) è fare un torto a uno dei più appassionati militanti sociali dell’inizio del XX secolo.
Cosa utilissima: lottava, peraltro, per i lavoratori (e le lavoratici) sfruttati nelle risaie, per i residenti intorno alle paludi, per la libertà di stampa. Lo faceva da collegi elettorali e zone oggi tra i più ricchi d’Italia (Ferrarese, basso Veneto, ecc.): la prova provata che la mancanza di sviluppo e ricchezza non è un’ipoteca per sempre, ma una scelta politica, se quelle stesse zone sono diventate nel tessile e nell’agroalimentare a lungo tra i distretti trainanti delle rispettive economie. E parlava pure di condizione femminile: l’avvilente situazione di donne giovanissime, spesso di prole numerosa, che alle fatiche di campo o alle insalubri ritmiche di officina univano il peso domestico-affettivo di case e famiglie. Matteotti socialista può essere il titolo di un tema, non il suo svolgimento.
Secondo aspetto interessante del monologo di Scurati: ricordare dei crimini commessi sul nostro territorio nel cappello dell’alleanza nazifascista. Sciagurata, forse, per il regime stesso. Sciagurata ancor più per chi la ha subita. Il riferimento a quanto qui avvenuto ha ovviamente una componente di psicologia collettiva, non vuole tornare al derby insulso del chi ha fatto peggio. Il tema è altro: è che le guerre, quelle attuali e quelle passate, come le dittature, le pensiamo ormai alla distanza di sicurezza della nostra relativa tranquillità di vita – almeno per quanto riguarda l’incolumità. Più il focus è distante, più la superficialità mischiata a oblio o non conoscenza annacqua, toglie spessore allo sguardo critico, fa archiviare file senza più nome e provenienza. Per il resto, la pagina di Scurati non toglie né aggiunge: non è nominata la Resistenza, e solo de relato la sua lunga scaturigine in clandestinità negli anni in cui il fascismo era pienamente in sella, acclamato da troppe piazze, circoli e salotti.
Non è accennata la difficoltà di una ricostruzione civile, forse fino in fondo mai giunta a compimento e dalla Costituzione solo progettata, vista nascere, ma non svilupparsi in modo radicale e coerentemente compiuto: giusto processo, prestazioni sociali, diritti di libertà. Nulla è detto su quanti insospettabili divennero antifascisti militanti solo a repubblica instaurata (comprese alte cariche di Stato e di impresa); e nulla è detto di quella parte di destra liberale, monarchica e nazionalista che a un certo punto sul fascismo dubbi veri aveva e divenne conseguente.
Non è detto della composizione della Resistenza: dell’apporto, calcolato quanto si vuole, ma militarmente decisivo in molti territori, delle Forze alleate; della mobilitazione di minoranze religiose che già avevano avuto un ruolo nel Risorgimento (valdesi, ebrei e non solo); persino del ruolo di comunisti e socialisti, che in Italia percorsero un ciclo molto diverso che in altri Paesi del mondo, accettando il parlamentarismo democratico. E soprattutto mancava forse là una domanda altrettanto schietta su chi siano oggi i fascisti e gli antifascisti.
I più convinti ad autoproclamarsi fascisti sono molto distanti da ciò che è stato il fascismo storico: sarebbero, dando un’occhiata alle norme oggi vigenti, i primi a esserne epurati (come in fondo sono spesso oggi i primi a rivendicare il kit delle libertà politiche invero estraneo alla dottrina fascista dello Stato). Fanno piuttosto revisionismo: elogiano, sovente a senso unico, un periodo che non hanno conosciuto e che proprio per questo è più facile mitizzare, come ogni esperienza umana collettiva verso cui si nutre una certa fascinazione, senza averne però davvero preso le misure. Se con fascismo intendiamo allora soltanto la forchetta temporale del ventennio, i suoi protagonisti e il suo partito, la sua politica e le sue istituzioni, quel fascismo è se non finito, sostanzialmente consumatosi.
Se con fascismo si intendeva una dottrina in cui isolare una serie di indici – trattamento giuridico delle minoranze, spazi e sanzioni per gli oppositori politici, amministrazione dello Stato e principi ispiratori della politica internazionale – è del pari evidente che nulla sia finito. La dottrina Pinochet in Cile, il peronismo in Argentina, il piglio sanguinario di Milosevic nei fatti di Bosnia: sono tutte cose certamente finite nella biologia e nella storia; non per forza, nel loro retaggio. E quel retaggio (o, matrice, come si ama oggi dire per svicolare) può essere identicamente o violento o dannoso o fomentatore di altri odi, altri errori, altre ferite. Dovremmo pure chiederci chi siano oggi gli antifascisti, se siamo stati in grado di definire approssimativamente cosa sia stato e cosa sarà il fascismo da qui in avanti.
Appare in effetti strano che sia in prima fila coi pennacchi degli editoriali, degli appelli svogliati, dei comizi tra pochi, chi pensa al 25 Aprile senza aver mai praticato il suo 8 Settembre: senza aver mai voluto o dovuto scegliere contro la logica della coscrizione obbligatoria, del potere ovvio, dello stato delle cose. Quegli stessi non si vedono molto in azione quando le libertà sono compresse, il sociale dimenticato, il disagio urbano ed extraurbano dei totalitarismi odierni accresciuto esponenzialmente. Come si può fare un sacrario per vestali dal 25 Aprile ed esserne creduti e credibili, senza praticare nei fatti quel pluralismo solidarista che tra mille contraddizioni pur ha avuto abbrivio dal continuum 8 Settembre-25 Aprile-2 Giugno?
E aggiungiamoci l’1 Maggio, che non nasce nel seno di quella lotta, ma altrove, e che comunque in Italia ha rappresentato alcuni decenni di spinta in avanti per i diritti delle classi: guardacaso, ipostatizzato a mostrine il Primo Maggio, anche tante garanzie giuridiche oggettive e soggettive sono cadute. Che la bandiera senza testimonianza sia il modo migliore di ingenerare la caduta consequenziale di tutte le cose cui quella stessa bandiera, finché viveva la testimonianza, aveva la forza di alludere? Qui è tutto un gioco strano e la linguistica ci sovrasta. Oggi fascista ha due significati che nulla hanno a che vedere con le considerazioni prima esposte. C’è il “fascista” come offesa, come regolatore del diritto di critica (“ma allora i veri fascisti siete voi”, “siete solo dei fascisti”, “sei un fascista”), come ostentazione appresa del male assoluto, e praticata soprattutto da chi ha remore a dirsi “antifascista” nell’altro senso, quello delle questioni sostanziali, delle scelte comportamentali.
Lì allora fascista e antifascista degradano a esagerazioni fuori dal tempo: non c’è bisogno di dichiararsi antifascisti se un fascismo più non c’è. E in nome di questo rientrano nella discussione collettiva cose di cui non s’avvertiva nostalgia alcuna – di certo, non ritornano i treni in orario o la bonifica delle paludi, ma l’intolleranza, il sospetto, il rifiuto di argomentare una posizione davanti a una platea che potrebbe non condividerla. E tutto questo non piace, perché travolgerà pure lo stesso 25, ma innanzitutto una collettività consapevole e libera nel giorno d’oggi.