La storia di Carmine Filiberti, malato di tumore: «Riaprite gli ospedali, voglio curarmi vicino a casa mia»
Originario di Santa Maria del Cedro, è soltanto uno dei tanti malati oncologici calabresi costretti a curarsi lontano dalla Calabria
A Carmine Filiberti, 60 anni, di Santa Maria del Cedro, piace parlare di sé come un sopravvissuto. E in fondo lo è. Nella sua vita ha combattuto e vinto due tumori ed è rimasto in piedi anche dopo una grave e improvvisa cardiopatia che lo ha costretto a un’operazione urgente e a lunghi mesi di ricovero. Carmine, a vinto fatti, ha dimostrato di avere la stoffa del guerriero. Ed è per questo che ora, nonostante gli strascichi della malattia, vuole denunciare una situazione aberrante.
Lui è soltanto uno dei tanti pazienti costretti ad emigrare e a curarsi fuori regione, lontani dalla propria casa e dai propri affetti. Una condizione difficile ma necessaria per sopravvivere. In Calabria gli ospedali sono pochi e sovraffollati, in alcuni casi inefficienti, e le liste di attesa sono infinite. «In questi anni io e la mia famiglia – ha confessato durante la lunga chiacchierata – ci siamo dissanguati».
I pazienti, nei casi come il suo, non solo devono pensare al percorso terapeutico, a fare i conti con il proprio destino, devono anche grattarsi per la testa per capire come riuscire a pagare visite, esami e farmaci che la sanità pubblica non garantisce. Quando arriva la malattia, ogni piano viene sconvolto, a volte si perde il lavoro o si mette in stand by e per tirare avanti bisogna chiedere aiuto alle persone vicine. Soprattutto quando si è costretto a curarsi in un posto che non è casa tua.
«Riaprite gli ospedali»
Carmine ci riceve nella sua casa di Santa Maria del Cedro, è seduto nel soggiorno e si regge poggiando le mani sul tavolo. Parla a fatica, il suo corpo è sopraffatto, oggi per lui è una di quelle giornata particolarmente difficili, in cui i tanti anni di malattia e le pesanti terapie tornano a farsi sentine. Ma vuole parlare lo stesso. Vuole denunciare lo stato degli ammalati calabresi, vuole mettersi dalla parte di chi non ha soldi per curarsi e lanciare un appello alle istituzioni: «Riaprite gli ospedali che avete chiuso e mettete i dottori nelle condizioni di poter lavorare serenamente. Io sono sempre stato curato da luminari calabresi, che da qui sono dovuti andare via».
Una vita dolorosa
Il primo grande dolore di Carmine arriva quando ha solo 15 anni, quando a causa di un incidente perde il suo papà. Diventa pizzaiolo, riesce ad aprire una pizzeria tutta sua, ma nel 1982 una diagnosi mette un freno ai suoi sogni: linfoma di Hodgkin. Carmine deve curarsi a Firenze, si sottopone all’asportazione della milza e ai cicli di radioterapia. Con la forza di un leone si tira fuori dal tunnel della malattia. Ma nel 2011 si ammala di nuovo. Nonostante siano passati quasi trent’anni, Carmine, per operarsi, deve tornare in Toscana.
I sanitari gli asportano tre linfonodi tra intestino e colonna vertebrale. Poi torna in Calabria, si sottopone alla chemioterapia a Paola, nell’eccellente reparto diretto dal dottor Gianfranco Filippelli, e gli sembra una manna dal cielo. Le spese sono ridotte al minino e lui può concentrarsi sul percorso di guarigione. Ma nel 2013, la mala sorte torna a bussare alla sua porta. Finisce di nuovo in sala operatoria per un intervento alla schiena e stavolta la patologia lo porta a Bologna. Altri sacrifici, altri soldi da sborsare. Così come nel 2015, quando un improvviso problema al cuore lo porta dritto nelle sale operatorie dell’ospedale di Bari. L’equipe medica, coordinata dal luminare calabrese Giuseppe Nasso, lo opera a cuore aperto per la sostituzione della valvola aortica.
Carmine torna a casa, sano e salvo, ma dopo qualche tempo ha necessità di un nuovo ricovero e fa il suo ingresso negli ospedali calabresi, dove vive un’esperienza disastrosa. «Non potete immaginare cosa ho visto all’ospedale Annunziata di Cosenza – ci dice -, non ci tornerei mai più. Io ero moribondo, vedevo centinaia di barelle sistemate una dietro l’altra e i pazienti vicino a me morire. I sanitari che cambiavano pannoloni in stanze con le finestre chiuse, era tutto chiuso. Ho rischiato di morire anche io».
Le cure lontano da casa
La sua degenza, quindi, continua tra gli ospedali fuori regione, tra cui quelli della Campania, in cui si sottopone a tac, risonanze ed esami di ogni genere, in tempi brevissimi. Ma il girotondo nelle strutture sanitarie lontano da casa, lo logorano, non solo dal punto di vista economico, ma anche e soprattutto dal punto di vista psicologico. «Ho il sospetto che mi sia ammalato di nuovo – ci dice ancora -, ma dove vado? Dove? Non riesco a fare venti metri a piedi, avrei bisogno di curarmi qui a casa mia, ma gli ospedali sono chiusi».
E quelli che sono aperti presentano liste di attesa non compatibili con un paziente nelle sue condizioni. «Il mio appello – conclude Carmine – è quello di riaprire i diciotto ospedali chiusi nel 2012. Per esempio gli ospedali di Praia a Mare e Trebisacce. Inutile dire che li hanno riaperti solo perché prendono venti anziani e li mettono nel reparto di lungodegenza. Gli ospedali sono un’altra cosa». Con i soldi sborsati dalla Regione ogni anno per l’emigrazione sanitaria, i diciotto ospedali si potrebbero ricostruire di sana pianta. «È come un cane che si morde la coda. La Calabria ogni anno spende centinaia di milioni di euro per regalarli alle regioni del nord». Mentre qui la gente continua a morire in attesa di un’ambulanza che non arriva.