Festa anni ’90, la città vecchia di Cosenza tra festa e rimpianto
Si può togliere la festa da Cosenza Vecchia, ma non puoi togliere Cosenza Vecchia dalla festa
Confesso di essere andato al concerto-karaoke-dj set “Voglio tornare negli anni ‘90” con lo stesso spirito col quale esattamente quarant’anni addietro Giovanni Lindo Ferretti cantava: “voglio rifugiarmi sotto il patto di Varsavia, voglio il piano quinquennale, la stabilità”, in quella perla di Live in Pankow che è insieme il commiato e la critica feroce alla relativa agiatezza dello stato sociale borghese.
L’amore per la città vecchia è parte integrante della vita ludica non solo mia, ma di tante generazioni cosentine. Qui, ad esempio, i primi, straordinari, festival delle Invasioni. Ecco, è il caso di (ri)dirlo: quelle Invasioni sono andate in soffitta da tempo. Nascevano da una idea geniale, confermatasi vera e profetica insieme: quanto le migrazioni avrebbero impattato il vissuto collettivo e il suo immaginario. Tutte le volte in cui si è tornato a riprendere il “brand”, lasciando stare critiche, apologie, autodifese o chissà che altro, si è capito subito che non sarebbe (più potuta essere) stata la stessa cosa.
E dicevamo: “arena Rendano”, il nome un po’ ampolloso col quale si attrezza la piazza del teatro quando lì si svolgono concerti. Non c’è spazio per alcun piagnisteo: dal punto di vista della godibilità, del ballo, del divertimento, non ho nulla da dire sull’iniziativa. C’era allegria, gente, tanto revival e una atmosfera scanzonata che ha contagiato la comitiva. Non si è sentito quasi nulla del rock chitarristico, che tanta parte ha avuto in quel decennio (dopo il quale il rock e la chitarra hanno avuto una lunga separazione consensuale).
Non si è sentito assolutamente niente dalla musica dei centri sociali autogestiti, strane creature di liberazione urbana dove per tre decenni si è danzato, mangiato, dormito, goduto, lottato. È un peccato: perché se vuoi davvero raccontare i Novanta, le band e le occupazioni sono state totalmente parte di quel processo cronologico e affettivo. E tutto sommato penso che non sia un dj set estivo nel dopocena a dover riannodare quel filo: “su le mani” e tanti pezzi che la pista da ballo (o l’italian plastic pop) ci offriva ai primi compleanni in disco trent’anni fa. Figurarsi poi fare i puristi in un evento che proprio sul trash e sul revival costruisce gran parte del suo corredo. Nulla quaestio.
Semmai, se critiche si voglion fare, devono essere radicali quanto costruttive: partendo dal buono e dalla mancanza e toccandoli insieme. Allora: un grosso plauso a tutte le lavoratici e i lavoratori degli stand enogastronomici. Chioschetti, è vero, ma dove tra pacche sulle spalle e battute si poteva allegramente fare serata. Tanti hanno detto che si sarebbe potuta aumentare l’offerta o magari, lasciando inalterati i banchetti dove si è andati a crassi e sapidi panini imbottiti, aggiungere spazi per magliette, souvenir e memorabilia. Corretto.
Come pure transennare la piazza, la villa e l’ultimo spicchio di Corso Telesio è finanche comprensibile se ci sono eventi con pagamento all’ingresso (dovremmo incentivare piuttosto la fruizione del gratuito), ma il rischio autogoal sulla godibilità artistica delle zone limitrofe è dietro l’angolo. Arrivi e non potendo uscire di nuovo resti nel limbo. Il flusso tuttavia è stato ordinato e il meccanismo ha a suo modo saputo reggere: forse si può pensare di renderlo più fluido e liberale.
Mentre ancora si cantava senza la base, appoggiati solo ai battimani e agli zainetti, l’altra riflessione che stava un po’ nella testa di tutti è che si può togliere la festa da Cosenza Vecchia, ma non puoi togliere Cosenza Vecchia dalla festa. Questo spazio di città deve vivere di più e più a lungo e con più cose e con più coinvolgimento di chi ci abita – che ha a volte problemi di natura sociale molto radicati e profondi (stabilità delle case, servizi, possibilità reddituali). In questo senso si muovono gli ultras della curva sud, che proprio nel centro storico hanno sede, tante associazioni benefiche e realtà culturali che ad alterne fortune esprimono ancora una socialità orizzontale e briosa che non può andare nel dimenticatoio. Altrimenti, appunto, si torna alla mentalità di “passata la festa, gabbatu lu santu”.
Invece questo strepitoso quartiere deve esser messo in condizione di esistere anche quando non c’è nessun “lu santu” ospite d’onore alla festa. Scavalcando la transenna per ritornare alla macchina mi soffermavo su un cartello “Villa Vecchia buona vita”. La città deve avere la forza di trovare naturale di scrivere “Villa Vecchia lunga vita”.