Scalea, denunciò irregolarità al Comune ma finì a processo: ecco la storia di Mauro Campilongo
Otto anni dopo l'assoluzione con formula piena, il legale ha deciso di raccontare pubblicamente la sua dolorosa vicenda
Minacce, insulti, gogna mediatica e sei anni di processo per un’accusa di falso. Tanto è costato all’avvocato Mauro Campilongo denunciare un affidamento diretto di un terreno di 3.600 metri quadri durante un consiglio comunale a Scalea, nel quale lui ricopriva il ruolo di consigliere di minoranza. Otto anni dopo l’assoluzione con formula piena, Campilongo ha deciso di raccontare pubblicamente la sua dolorosa vicenda.
L’origine della vicenda
Riavvolgiamo il nastro. Nel 2010, dopo aver concluso la sua esperienza da vicesindaco nel mandato di Mario Russo, Campilongo si ricandida alle elezioni di Scalea, ma stavolta viene eletto tra le fila della minoranza. Lo scontro con la maggioranza del sindaco Pasquale Basile (quest’ultimo indagato e condannato nell’ambito dell’inchiesta anti ‘ndrangheta Plinius, ma assolto definitivamente dall’accusa di associazione mafiosa, ndr) genera tensioni. In un consiglio comunale del novembre dello stesso anno, Campilongo invita l’amministrazione a revocare una concessione che riguardava le aree consortili «perché data senza alcun avviso, ma a semplice domanda diretta». Sono 3.600 metri quadrati di terreno. Il giorno successivo gli uffici comunali revocano l’affidamento, ma per il consigliere Campilongo cominceranno anni di inferno.
Le minacce
Quello stesso giorno, Campilongo viene aggredito verbalmente in un bar del posto, alla presenza di numerosi testimoni. Un uomo, parente di un amministratore, gli punta il dito in faccia, pronunciando la frase: «Lacrime e sangue per te la tua famiglia. Smetti di parlare di questa concessione perché tu sai di chi è». Con tutta probabilità, l’uomo doveva essere un prestanome di qualcuno parecchio interessato ai terreni, ma senza requisiti per ottenerli. Un’altra persona lo insulta in strada mentre si trova in compagnia di alcuni famigliari.
I controlli nella villetta
La mattina del 26 dicembre, un mese dopo il famigerato consiglio comunale, alla sua porta si presentano i vigili urbani di Scalea, perché nei giorni precedenti è giunta al Comune una lettera anonima in cui si parla di abusi edilizi relativi alla sua abitazione. L’uomo che firma la missiva è Luca Cava. Ma nessuno lo conosce e forse nemmeno esiste; è molto più probabile che si tratti di un infelice pseudonimo che, ancora una volta, nasconde una minaccia. In dialetto, “lu ca*ava” significa “lo pagava”, come a dire “quel che ha fatto lo paga”. Gli agenti gli comunicano che nella sua pratica di concessione edilizia manca un documento. «Si chiama velina – precisa l’avvocato – e attesta il protocollo del genio civile dei calcoli del cemento armato». Chi segue quella pratica afferma di aver già consegnato l’atto al Comune, ma Campilongo ne richiede nuovamente una copia e la riconsegna agli uffici.
Il numero sovrapposto
Che sia stata una mero errore involontario o uno scherzo del destino beffardo non è mai stato chiarito, fatto sta che quella pratica ha un numero identico a un’altra pratica in corso. Quindi, gli uffici del Comune di Scalea ipotizzano che uno dei due documenti possa essere artefatto e denuncia Campilongo per falso. Ma la procura di Paola apre un’inchiesta e delega le indagini alla Polizia locale. «Un’altra cosa grottesca. Il comune mi denuncia per falso – afferma l’ex consigliere comunale – e il pubblico ministero invece di delegare i Carabinieri o altri organi polizia giudiziaria, delega gli stessi vigili urbani».
Il lungo processo e l’assoluzione
Campilongo viene rinviato a giudizio e per lui comincia un processo, che tra ritardi e rinvii, dura sei lunghissimi anni, periodo durante il quale, l’imputato vive un forte disagio: «Un senso di vergogna ingigantito dall’isolamento». Poi, finalmente, a conclusione del lungo iter, arriva l’assoluzione con formula piena, perché i giudici certificano che quel documento è reale e non c’è stato alcun imbroglio. Alla lettura del verdetto la sensazione di sollievo è tanta, ma dentro resta un po’ d’amarezza, che nemmeno la sentenza a suo favore può cancellare. «Durante il processo hanno chiesto ai responsabili, due istruttori direttivi del genio civile di Cosenza, se fossero stati loro a firmare il documento e hanno detto di sì. Questo hanno fatto in tutto quel tempo». I due funzionari erano già stati sentiti nella fase iniziale delle indagini condotte dagli organi di polizia giudiziaria e già in quella occasione avevano confermato che la firma apposta su quel documento era autentica. Ma evidentemente quella deposizione non era bastata a chiudere il cerchio e a sgomberare il campo a ogni dubbio. Oggi Mauro Campilongo ha deciso di parlare della sua esperienza per togliersi un peso e alzare il velo sul sistema giudiziario italiano, e non solo, che certamente suscita profonde riflessioni.
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