mercoledì,Maggio 14 2025

‘Ndrangheta a Cosenza, il “mestiere” dell’informatore

Storie tragiche di persone uccise perché sospettate di essere confidenti della polizia, il pentito:«Il nostro ambiente ne era pieno»

‘Ndrangheta a Cosenza, il “mestiere” dell’informatore

Non solo omicidi e scontri tra bande nella Cosenza degli anni Ottanta, ma anche spie e informatori. Uomini dalla doppia vita, che da un lato consumano le loro esistenze tra crimini e scorribande e dall’altro si assicurano una fetta di impunità passando notizie alle forze dell’ordine. Nulla a che vedere con il “confidente” vecchia maniera, figura cardinale per gli investigatori old style, quando le attività principe della mala erano il contrabbando e la prostituzione. La droga e le estorsioni, quelle arriveranno molto dopo, insieme a una lunga scia di sangue.

Come quello di Sergio Cosmai, il direttore del carcere trucidato il 12 marzo 1985, sul viale cittadino che oggi porta il suo nome. A ucciderlo, com’è noto, furono Dario e Nicola Notargiacomo in collaborazione con i fratelli Stefano e Pino Bartolomeo. E anni dopo, un Nicola Notargiacomo ormai pentito, si presenterà in aula, durante il processo “Missing” a rivelare un retroscena inedito relativo proprio a quei fatti: «In Questura arrivò una lettera anonima che diceva, omicidio Cosmai: fratelli Notargiacomo più Stefano Bartolomeo».

Informatori e spie, dicevamo, anche se 26 anni dopo, l’autore di quella soffiata è ancora sconosciuto. «Magari l’avessi saputo – commentava, non a caso, Notargiacomo – A quest’ora lo avrei già ucciso». Cosmai a parte, il più giovane camorrista cosentino di tutti i tempi (fu “battezzato” dalla ‘ndrangheta a soli 19 anni), ha svelato anche uno dei segreti inconfessabili del crimine cosentino: «Il nostro ambiente era pieno di informatori. Un giorno mi convocò il dottor Calipari in questura – a quei tempi l’ex 007 morto in Iraq era capo della Mobile a Cosenza ndr – e mi disse: in questa città droga e armi non ne voglio vedere, come dobbiamo fare? Gli risposi che aveva sbagliato indirizzo e lui: vabbè, pensaci. Anche perché tu sei uno dei pochi che ancora non è mai venuto da me a fare soffiate».

Inutile chiedersi chi fossero i doppiogiochisti, perché è un segreto che riposa insieme a molti protagonisti dell’epoca. Di certo c’è che, sempre in quel 1985, in via Montesanto, suona l’ora di Alfredo Andretti. E sempre Notargiacomo, durante un’interrogatorio davanti ai magistrati, racconta così quell’esecuzione avvenuta in piena estate, all’interno di un bar che oggi non esiste più. «Andretti era diventato un informatore dell’allora capo della Mobile, Nicola Calipari».

«Buonanima», chiosa il maresciallo che lo interroga. «Certamente, buonanima», gli fa eco uno degli assassini impuniti di Cosmai. La polizia aveva messo le mani su un piccolo arsenale, ritrovato nei pressi della piazza Piccola, la principale base operativa del clan e, «secondo i bene informati – sottolinea il pentito – era stato proprio Andretti a fare la spiata. La sua tossicodipendenza lo rendeva, ormai, inaffidabile. E poi, non era uno qualsiasi Andretti. Se “cantava” lui, finiva nei guai un sacco di gente».

Nel primo pomeriggio del 5 luglio 1985, Alfredo Andretti aveva appena fatto ritorno da Lamezia. Si era recato in un centro di recupero per tossicodipendenti, dove avrebbe dovuto ricoverarsi una settimana più tardi. L’eroina lo stava divorando, ma quel posto gli era piaciuto al punto da rincuorarlo un po’ sul suo futuro. E così, alle 15.10 entra in bar di via Montesanto, a pochi metri da casa sua. Si mette a leggere il giornale, poi ordina una birra.

Agli albori della guerra era un pesce piccolo vicino clan Pino-Sena, ma la sua predilezione per la droga, aveva spinto i due boss a «togliergli la confidenza». E così, lui si era buttato con la fazione opposta, rivelandosi a sorpresa un “azionista” di tutto rispetto, con all’attivo la partecipazione a diversi omicidi. Sapeva troppe cose, insomma. E anche per questo, “doveva” essere eliminato.

Sta ancora leggendo, seduto al tavolino del bar Brasilia, quando pochi metri più avanti si ferma una Fiat 127 bianca. Alla guida c’è Francesco Saverio Vitelli, ma dalla vettura scende Aldo Acri. Il “meccanico” della cosca, killer tra i più feroci e determinati, si avvicina alla vetrata e spara tre volte, colpendo la vittima alla testa. Poi risale in macchina per fuggire, ma da un balcone vicino c’è chi assiste alla scena.

Una donna vede il killer solo di spalle, ciò nonostante riconosce Aldo Acri per via delle «gambe storte», un suo tratto distintivo. Più tardi, i familiari della vittima, insceneranno una plateale protesta sotto casa sua, in via degli Stadi, urlando tutto il proprio dolore. Interverrà Vitelli a risolvere la questione. Alfredo Andretti, intanto, è ancora vivo, ma arriva in ospedale quando ormai per lui è troppo tardi.

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