Il Natale arbereshe: riti e antiche tradizioni anche a tavola
Tra le pietanze tipiche, i “fillilet”, una pasta lavorata col ferro di calza in modo da poter accogliere il sugo. Altre paste tipiche fatte in casa portano i nomi di “rrashkatjelet”, “dromësat”, “shtridhëlat”
Paese che vai, usanza che trovi. E così, anche la festa del Natale si dirama in usi e costumi diversi a seconda dei luoghi. Spesso cambia poco, a volte solo i nomi dati alle stesse tradizioni, e poi ci sono invece tradizioni particolari, figlie di una storia che ha radici altrove. È il caso, per esempio, dei paesi arbëreshe della provincia, dove sopravvivono gli echi di una cultura approdata qui ormai secoli fa e mescolatasi a quella locale. Alcune sono usanze – per giocare un po’ con le parole – ancora “in uso”, altre sono scomparse ma si perpetuano grazie ai ricordi e ai racconti dei più anziani.
Il profumo della festa si diffonde già a partire dal 13 dicembre, giorno di Santa Lucia. I giorni che separano dal Natale vero e proprio vengono presi come misura dai contadini per fare le previsioni meteo del nuovo anno. Si tratta dei cosiddetti giorni “cuntati”.
I dolci tradizionali
Il profumo della festa, dicevamo. E di profumo vero si tratta visto che in questo periodo iniziano anche i preparativi dei dolci tipici natalizi: quinullilet, krustulit, xhurxhullena, turdilet, petullat, krispelet, kanaritulat, kanalletat, skallilet. Uno dei momenti più attesi per le comunità albanesi della zona del Pollino è proprio quello della preparazione dei dolci: petullat o krispelet, morbide frittelle a forma di ciambella, ottenute con pasta lievitata fritte in abbondante olio; kanarikullat, una sorta di cannoli di pasta sfoglia impastata col vino, fritti e poi cosparsi di miele; xhurxhullet o xhurxhullinat, una specie di torrone ottenuto da un impasto di miele, semi di sesamo e mandorle; bukunotet, ripieni di marmellata, di mostarda o di ricotta; kanaletet, a base di farina e uova e a forma di scaletta, dopo la cottura viene spolverato con zucchero; krustulit, a forma di enormi gnocchi, preparati come le kanallete, ma cosparsi di miele.
A Falconara Albanese, un’antica tradizione vuole che il capo famiglia presiedesse alla frittura delle krispele, reggendo il manico della padella, mentre la padrona di casa calava nell’olio bollente la pasta lievitata. A San Benedetto Ullano – oltre ai dolci fritti in padella a base di farina, tuorli d’uova, zucchero, miele, farinaccio – si confezionano pani speciali fatti in casa (natallizet) dalle forme diverse, rappresentanti pupazzetti in atteggiamenti curiosi, e due pani rappresentanti il Capodanno (kapudhani) e l’Epifania (Befania), che vengono conservati e consumati esclusivamente per le due occasioni. A Firmo il dolce tipico di Natale è la çiçirata, a base di farina, uova e un pizzico di sale: impastato con le uova, si lavora la pasta, ricavando dei bastoncini che vengono poi tagliati come piccoli ceci.
E i dolci sono un po’ il corrispettivo dei giorni “cuntati” in versione culinaria: dalla loro riuscita, infatti, si traggono gli auspici per la salute delle persone. E alla tradizione s’intreccia la solidarietà e il senso di comunità, in gran parte andato ovunque perso nel tempo: alle famiglie colpite da lutti nel corso dell’anno i dolci natalizi vengono portati da amici e vicini di casa.
La cena della vigilia e la messa
Dolce dopo dolce, si arriva alla cena della vigilia, tradizionalmente a base di pesce. Tredici – in alcuni paesi nove – le pietanze da consumare. Tra quelle tipiche, i “fillilet”, una pasta lavorata col ferro di calza in modo da poter accogliere il sugo. Altre paste tipiche fatte in casa portano i nomi di “rrashkatjelet”, “dromësat”, “shtridhëlat”. Per quanto riguarda i secondi, seguendo la tradizione di pesce, sulle tavole si trovano “ngjalë” (anguille) e “bakalla” (baccalà). Ma c’è chi opta per il capretto arrostito assieme a patate o legumi, gratinato con pecorino e pangrattato.
Dopo la cena, è il momento della messa. Molto suggestivi i riti che sopravvivono in alcuni centri dove nel sagrato della cattedrale, poco prima della celebrazione, si dà fuoco a una catasta di legna e frasche dando vita al “focolare di tutti”, attorno al quale si intonano i tipici canti detti “vjersh”. In passato, il giorno dopo il falò i contadini raccoglievano la cenere e la conservavano per poi spargerla nell’aria durante i temporali, per fermarli e impedirgli di distruggere il raccolto.
Particolare la messa a San Demetrio Corone, dove il sacerdote (il papàs nel rito greco), all’inizio della funzione gira per tre volte attorno ai fedeli con la statua del Bambino Gesù tra le braccia. A lui si accodano i papà dei bimbi nati durante l’anno, ciascuno reggendo in alto il proprio piccolo.