Pane e malavita, la parabola oscura di Francesco Saverio Vitelli
Lui era la mente e suo fratello Peppino il braccio di un gruppo criminale fra i più potenti e temibili nella Cosenza degli anni Ottanta.
Quello in via Macello, al numero 33, non era un semplice panificio della città di Cosenza. Negli anni ruggenti, quei due magazzini messi in fila nel cuore del rione Gergeri, erano anche il quartier generale del gruppo Vitelli, un cognome a cui è legato il romanzo criminale cosentino degli anni Settanta e Ottanta. Ferdinando, Peppino e Francesco Saverio: tre fratelli uniti dalla scelta delinquenziale e poi da un destino sempre sincronizzato al mutare dei tempi.
Merito soprattutto di Francesco, la “mente” della famiglia, interprete principe di una malavita sanguinaria e gaudente, capace di imporre la propria egemonia con la sapienza del piombo e del denaro. Sono una dozzina gli omicidi che lo riguardano in prima persona: pochi eseguiti materialmente e il resto delegato ad altri. Francesco Saverio Vitelli, infatti, era un capo anche se, solo di rado, viene inserito nella “ragione sociale” del clan, spesso delegata ai soli Perna e Pranno.
Eppure, i luttuosi eventi della guerra di mafia sono scanditi anche dalle sue decisioni, in buona parte assunte proprio nel chiuso di quel panificio. Un’attività che prova a intraprendere anche in Brasile, ai tempi della latitanza che ne anticipa la scelta collaborativa. Proprio quella svolta, avvenuta nel marzo del 1996, porrà fine al suo Ventennio di terrore.
La sua parabola oscura si dispiega dall’esordio come rapinatore in trasferta, quand’è ancora minorenne, fino ai primi passi mossi in città, quale giovane bandito di un gruppo “promiscuo” che, tra gli altri, annovera anche Franco Pino. La morte di don Luigi Palermo divide le antiche amicizie, li spinge a darsi la caccia in modo feroce e reciproco. E mentre Pino si avvia a una carriera che in seguito lo porterà ai vertici della ‘ndrangheta, in parallelo Francesco Saverio si afferma come leader del gruppo contrapposto, grazie soprattutto alla pistola del fratello Peppino messa al servizio della sua intelligenza.
Difficile per chiunque contrastare due così. In quel periodo, per mano loro cadono nemici, “inaffidabili” di ogni risma e traditori. Francesco, uccide personalmente anche suo cugino Carmine Luce, reo di essere passato con il gruppo ribelle dei Bartolomeo-Notargiacomo. Anni dopo, però, lui stesso guida i carabinieri sul luogo in cui è sepolto l’ex contabile del gruppo di San Vito.
E’ quello il biglietto da visita del suo pentimento fresco di stagione. Tuttavia, non erano solo gli spargimenti di sangue il suo tratto distintivo. Uomo di pace, così come lo era stato in guerra, Francesco Vitelli è tra gli artefici della distensione tra i due gruppi nemici che, a metà degli anni Ottanta anticipa la pax mafiosa del decennio successivo.
E’ di allora, il celebre aneddoto del «noi pomodori non ne abbiamo mai trattato», così come lo raccontò in seguito Franco Pino. Si tratta di un messaggio in codice con cui Vitelli e gli altri pensavano di minacciare e blandire un personaggio influente della magistratura che si diceva fosse implicato in una maxitruffa nel settore agroalimentare. Non è chiaro se quel ricatto sia andato poi a buon fine, ma negli anni a venire si pensò di riproporre la strategia anche per il tramite di calunnie tirate fuori ad arte per delegittimare esponenti delle istituzioni.
Poi, nel ’96, la decisione di cambiar vita; coincisa con l’inizio di un lungo peregrinare in giro per tribunali, ovunque ci fosse da accusare un ex compagno dei bei tempi che furono. Gli anni ruggenti e insanguinati di un ex panettiere consacrato al crimine.