‘Ndrangheta a Cosenza, il “parla-parla” che uccide
Da Mario Coscarella a (forse) Massimo Speranza, l'elenco delle vittime annovera tanti giovani uccisi sulla scorta di sospetti rivelatisi poi infondati
«Era uno specchietto degli italiani». «Faceva il piglia e porta». E ancora: «Era una spia». I collaboratori di giustizia la raccontano con parole diverse, ma per dire sempre la stessa cosa: l’undici settembre del 2001, Massimo Speranza detto “Il brasiliano” viene ucciso per quel modo pericoloso che aveva di muoversi a cavallo tra il clan degli zingari di Cosenza e il gruppo nemico di Michele Bruni “Bella bella”. Questa l’accusa che gli veniva mossa, ma che quel sospetto fosse o meno reale, è tutto un altro discorso. Che elementi ci sono per affermare che lo sfortunato ventunenne facesse davvero il doppio gioco? E quali segreti aveva passato al nemico? Al riguardo, risposte certe non ce ne stanno, il che ci porta a inserire anche la sua morte nella lista di vittime del “parla-parla”.
Un elenco che a Cosenza è già ben nutrito e che si è ingrossato a dismisura ai tempi della guerra di mafia. In quegli anni, infatti, il “parla-parla” era capace di uccidere come e più dell’odio feroce e tribale che aveva messo l’uno contro l’altro molto ventenni della città. Bastava una chiacchiera, un «si dice» di troppo, uno sguardo traversale, ed era fatta. La rappresentazione più cruda di quel clima avvelenato e un po’ assassino, la offre forse il pentito Franco Garofalo, ricordando i rischi che si correvano, ad esempio, a transitare sotto le mura di Colle Triglio per salutare qualche detenuto. Gli occhi maliziosi del nemico erano capaci di mal interpretare anche un semplice “ciao”. «Bastava che andavi a bere alla fontana del carcere e guardavi verso le finestre: eri morto. Non è che c’era modo di ragionare – dobbiamo vedere, dobbiamo valutare – eri morto e basta».
La Fata assassina
Il 25 gennaio del 1981, Mario Coscarella fa struscio su via Popilia insieme a due amici e non riesce a capire perché un uomo con indosso una terribile maschera da Fata turchina gli viene incontro con una pistola in mano. Pensa a uno scherzo, ma quello fa fuoco una, due, tre volte. «Non ho fatto niente» dice Mario prima di morire, e ha ragione. Lo hanno ucciso perché dicono abbia fatto apprezzamenti alla moglie di un boss o, in alternativa, perché lo considerano uno vicino al clan di Franco Pino. Sarà quest’ultimo, anni dopo, a inquadrare meglio l’argomento. Un giorno, a Colle Triglio, suo fratello Pietro Pino fa tappa nell’infermeria del carcere e, per puro caso, sul lettino a fianco c’è Coscarella. I due scambiano qualche parola e, tanto basta, a chi osserva nell’ombra, per decidere che quel ragazzo deve morire.
Non ho tradito
Antonio Chiodo, invece, di anni ne ha solo 17 quando, il 28 luglio del 1982, parte per una gita al mare insieme agli amici di sempre. Una settimana prima la guerra ha ucciso il suo coetaneo Angelo Cello. I due stavano sempre insieme, nonostante a dividerli vi fosse un intero universo ideologico: i fratelli di Chiodo, infatti, militano nel clan Perna; Cello, invece, simpatizza per Pino. Quel conflitto non mette in discussione la loro amicizia, ma quando Angelo muore, la voce che comincia a circolare in città è “para”: «Lo ha tradito u Chiodo». Intercettazioni telefoniche d’antan sublimano questo tragico chiacchiericcio che una sera di luglio si tramuta in azione. Antonio, infatti, non arriverà mai al mare. Lo portano nei pressi di Domanico, gli sparano e poi bruciano il corpo dopo averlo infilato in una pila di copertoni. Non aveva tradito il suo amico, non aveva tradito nessuno. (Clicca su avanti per continuare a leggere)