‘Ndrangheta a Cassano, il “compromesso storico” tra i nomadi e i Forastefano
La rapina finita male che determinò la rottura, la faida sanguinosa e poi la pace siglata tra i due clan egemoni nella Sibaritide
I recenti arresti per associazione mafiosa ed estorsioni eseguiti a Cassano riaccendono i riflettori sull’attività del clan dei nomadi e della famiglia Forasterano, i due gruppi criminali egemoni nella Sibaridite, un tempo contrapposti e oggi alleati. Una svolta, quest’ultima, che è stata ufficializzata negli ultimi anni, ma con premesse che affondano le radici nel tempo.
Risalgono al 2012, infatti, i primi segnali di disgelo tra le due consorterie fino ad allora contrapposte in modo feroce. Le faide di qualche anno prima avevano lasciato sull’asfalto decine di morti, dall’una e dall’altra parte, ma dopo le offensive giudiziaria – operazioni Lauro e Omnia in primis – zingari e italiani avevano cominciato a organizzarsi per fronteggiare il nemico comune: lo Stato.
E così, in quel 2012, presentando all’opinione pubblica i risultati dell’operazione “Drugstore”, la Dda di Catanzaro prende atto di come fra gli zingari e i Forastefano dopo anni di contrapposizione armata, fosse in corso «sostanziale pacificazione» che, in quel periodo, si traduce in tolleranza reciproca nell’attività di narcotraffico e nei primi vagiti di cooperazione vera e propria.
Alcune figure criminali come quelle di Vincenzo D’Amati alias “Zingaro nero” cominciano a muoversi a cavallo tra i due gruppi, mentre sul fronte degli italiani ai Forestefano si aggiunge anche la famiglia Rizzo, nella cui masseria gli investigatori piazzano una telecamera che farà poi la fortuna dell’indagine.
Finisce allora, in sostanza, la lunga e luttuosa guerra che nel decennio precedente aveva insanguinato la costa jonica e si apre una nuova epoca, quella di un “compromesso storico” che, in futuro, si tradurrà in una gestione sempre più condivisa nell’esercizio del potere criminale.
Per riuscire nell’impresa, però, i rispettivi gruppi furono costretti a mettere da parte odi ancestrali e rancori antichi che risalgono agli anni Novanta del secolo scorso. C’è stato un tempo, infatti, in cui zingari e italiani erano una cosa sola, ma in quel periodo a determinare la rottura fu una rapita finita male.
Fu Antonio Forastefano alias “Il diavolo” a rivelare l’episodio durante la sua breve stagione da collaboratore di giustizia. I fatti sono relativi a un “colpo” ai danni di un furgone portavalori organizzato nel 1998 in provincia di Vibo Valentia. Finì malissimo, dicevamo, perché ne venne fuori uno scontro a fuoco con i carabinieri che determinò sul fronte dei Forastefano un morto e un ferito grave. E si trattava in entrambi i casi di cugini diretti di Tonino il diavolo.
Proprio quest’ultimo, molti anni più tardi, durante l’udienza di un processo, raccontò di come all’epoca lui e il suo gruppo pensarono che a comportare quella debacle fosse stata una soffiata fatta dagli “amici” nomadi alle forze dell’ordine, circostanza che determinò la frattura tra i due gruppi.
Un tema sensibile, considerato che nel corso della stessa udienza, il boss della consorteria opposta, Francesco Abbruzzese alias “Dentuzzo”, imputato in quel processo, ci tenne a rilasciare dichiarazioni spontanee per respingere le insinuazioni di Forastefano. Una ferita, dunque, che a tanti anni di distanza era ancora aperta, ma che in seguito è stata evidentemente cauterizzata.
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