Il senso dell’amore

Ricordo il 26 giugno del 1991 come se fosse ieri. All’epoca io e la mia famiglia abitavamo a Villaggio Europa: dai vialetti fino alla tromba delle scale, coi parapetti rossi ancora senza infissi, quel pomeriggio risuonava ovunque la voce di Bruno Pizzul. E a me sembrava incredibile che il telecronista della Nazionale e dei Mondiali di Italia ’90 stesse raccontando la mia squadra.

Faceva un caldo infernale e la serranda del soggiorno era quasi completamente abbassata, per cercare un po’ di riparo alla canicola. Seduto sul divano ruvido e chiaro accanto a mio padre, apprendevo le basi della mia educazione sentimentale. Che era esattamente l’opposto di quella che avevo imparato sui libri di scuola. E cioè il controllo sulla realtà: l’esatta certezza che, applicandomi, avrei ottenuto buoni voti; che per raggiungere un certo risultato era necessario studiare a fondo la fotosintesi, ripetere più volte Carlo Magno o scrivere prima in brutta un tema.

Il Cosenza mi ha educato sin da subito all’impossibilità di avercelo, questo controllo. Tra il 1987 e il 1989 mi ha illuso che fosse la squadra più forte del mondo. Quindi, tra il 1990 e il 1991, vidi il rosso e il blu salvarsi all’ultimo tuffo a Trieste e costretti allo spareggio per restare in serie B. E poi i calciatori. Li consideravo creature divine prossime all’immortalità, finché non mi imbattei nell’omicidio Bergamini. E il loro talento: Ciro Muro che arriva con le stimmate di erede di Maradona, ma segna solo due gol. Come si fa a controllare una cosa così?

C’è anche altro. Niente come il successo oscura il percorso che si è fatto per ottenerlo. Tranne quando è precario. E niente è più precario della lotta per la salvezza (e di uno spareggio). Del 1991 ricordiamo tutti il gol di Marulla a Pescara, ma chi se li dimentica Edi Reja in maniche di camicia a invocare il tifo della tribuna, il 7-4 di Reggio Emilia e il 2-1 al ritorno (quando, dopo il raddoppio di Compagno a inizio ripresa, l’arbitro si sentì implorare dagli spalti fisch’a fine!), Vettore che a Barletta incespica con la palla quasi oltre la linea di porta e fa tremare tutti?

Nel 1991 avevo nove anni e l’ipotesi di andare a Pescara non fu nemmeno presa in considerazione. E così, l’anno scorso, ho fatto i salti mortali per essere a Vicenza. Credo di poter annoverare il viaggio di ritorno in macchina tra le esperienze più vicine allo stress post traumatico che abbia vissuto. Tre ore in totale silenzio. I chilometri, che mi allontanavano dal Menti, sembravano portarci via allo stesso modo dalla serie B.

È in quei momenti che realizzi il possesso, altra parola chiave dell’educazione sentimentale. Quella cosa che scende in campo è tua. Anche se la proprietà è di qualcun altro.

Dopo la vittoria all’andata col Brescia potremmo fare tanti bei ragionamenti sulla bravura di Viali nel ridisegnare la squadra a seguito dell’infortunio di Marras, sulle (ormai acclarate) difficoltà di Zilli, sulle prestazioni di D’Urso e Brescianini. Ma sappiamo pure che quella del Rigamonti sarà una partita più difficile da controllare. Giocarla lontano dal Marulla impone di puntare sui calciatori più esperti e avvezzi a questo genere di situazioni (Calò?), oltre che sull’incoscienza di chi non le ha mai affrontate (Nasti).

Ci saranno momenti in cui la difficoltà di giocare sarà fortissima e chi scenderà in campo con la maglia rossoblù dovrà aggrapparsi alla consapevolezza del percorso. A febbraio questa era una squadra morta. Le batoste di Ferrara e Como, i timidi segnali di vita contro Palermo e Parma. Poi la rimonta nel derby, la vittoria al novantesimo di Frosinone e, per un attimo, l’illusione di una cavalcata che ci tirasse fuori dal mischione. Dove invece ci siamo ricacciati, per limiti e stanchezza, fino al pari di Ascoli. Imprese (spesso nelle gare più difficili) ed errori (talvolta in quelle teoricamente più alla portata) ci hanno condotto fin qui. Se il Cosenza dimentica tutto questo, fornisce al Brescia l’arma più letale: quella di restringere il perimetro del match ai novanta minuti.

Le condizioni di Marras, che dovrebbero consentire un suo impiego tra i titolari, spingono verso la conferma in blocco degli undici iniziali di giovedì scorso. Né credo che le opzioni a disposizione di Viali offrano tante alternative. Si potrebbe al massimo optare per Vaisanen al posto di Rigione o Calò per Florenzi (per provare a sfruttare Nuciddra nella seconda parte del match), ma io credo che il mister alla fine punterà semplicemente sui più in forma, senza tanti calcoli. Farebbe bene, perché la lucidità maggiore servirà in corso di partita, tra aggiustamenti e correzioni: il Brescia visto al Marulla si è rivelato più pericoloso con la sua mediana che per i suoi attaccanti. Il cuore della partita, dunque, si giocherà nella gestione oculata delle due linee difensive, sulle seconde palle e nella capacità di ripartire.

Infine, e a prescindere da come andrà, i mille del Rigamonti sono soprattutto la prova incarnata del possesso. In fondo all’ennesima stagione sciagurata, ché sarebbe bastato pochissimo per rendere decorosa, i biglietti del ritorno playout sono stati polverizzati in ventiquattr’ore.

Cinque anni fa, all’Adriatico, andai con due tagliandi: uno per me e uno per mio padre, che non c’era già più. So di averne così sottratto uno a chi avrebbe voluto esserci, ma vi assicuro che, a un certo punto, su quegli spalti, sapevo che lo avrei sentito di nuovo accanto. Ed è stato così.

Stavolta ne ho preso uno solo. Sono certo che, in qualche mondo parallelo, sarà seduto sul divano di Villaggio Europa a guardarla anche lui (e che ognuno di noi porta un’immagine del genere dentro di sé, sulla strada verso Brescia). Ma questa storia stavolta riguarda me. Il senso dell’educazione sentimentale che mi è arrivata dal Cosenza: possedere qualcosa che non posso controllare e del cui percorso ciascuno di noi è, nel suo piccolo, il solo a conoscere il vero valore. Il senso dell’amore, praticamente.

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