sabato,Maggio 18 2024

Cassano, revocato il programma di protezione a un pentito di ‘ndrangheta

Lo Stato vuole chiudere i conti con un ex affiliato del clan Forastefano, ma il Tar ha sospeso gli effetti del provvedimento in attesa del giudizio

Cassano, revocato il programma di protezione a un pentito di ‘ndrangheta

Per lo Stato italiano, Samuele Lovato non è più un collaboratore di giustizia. Qualche settimana fa, infatti, la Commissione centrale del ministero dell’Interno ha revocato il programma speciale di protezione al 49enne già affiliato al clan Forastefano di Cassano allo Ionio. Il suo non è il primo caso che si registra in Calabria, ma stavolta dietro non c’è una colpa o una manchevolezza contestata al pentito, un tempo noto con il soprannome de “Il siciliano”. Più semplicemente, gli inquirenti considerano esaurita la sua funzione poiché, a loro avviso, non c’è più alcuna esigenza di utilizzarlo nell’ambito di indagini o di processi antimafia.

Un addio senza rancore, dunque, solo che la prospettiva di una separazione consensuale non è vista di buon occhio dal diretto interessato. L’uomo teme per la sua incolumità e per quella dei suoi familiari, e anche per questo motivo, ha impugnato l’atto ministeriale con un ricorso al Tar del Lazio. Il suo avvocato Enrico Morcavallo ha già ottenuto un primo risultato: la sospensione degli effetti del provvedimento in attesa che la causa venga discussa in aula davanti ai giudici amministrativi. Ciò avverrà il prossimo 11 giugno.

All’epoca del suo pentimento, risalente al 2011, si riteneva che l’uomo fosse ben inserito nella cosca di ‘ndrangheta cassanese, talmente vicino al capo Antonio Forastefano da guadagnarsi l’appellativo di “Figliastro”. L’altro suo nom de crime – “Il siciliano” – si doveva invece alla città natia, San Castaldo di Caltanissetta.

Dei Forastefano era un po’ il factotum. Altri collaboratori, infatti, riferiscono che i suoi compiti spaziavano dalla commissione delle truffe al semplice acquisto delle sigarette per boss e gerarchi. Tuttavia, era nelle pratiche intimidatorie che veniva fuori la sua cifra criminale. Non un killer, bensì un picchiatore che entrava in scena ogni qual volta c’era da menar le mani per mettere in riga la gente.

Non a caso, c’era anche lui la sera delle “celebri” minacce ai familiari di Domenico Falbo, reo di aver sottratto ben 400mila euro dalla cassaforte del clan. E sempre a lui, il “figliastro”, i capi avrebbero dato il compito di sovrintendere alla caccia a Franco Cariati, l’imprenditore poi morto suicida in Canada.

Frammenti di una vita criminale che comincia a sgretolarsi già nel 2009, a causa di alcuni dissapori interni causati dalla “reggenza” di Salvatore Lione, per poi affondare del tutto a febbraio del 2010, quando la sentenza “Omnia” gli consegna la patente di mafioso, condannandolo anche a tredici anni di carcere. Due eventi in rapida successione che, in quei giorni ormai lontani, lo convinceranno a dare una svolta alla sua esistenza.