L’Italia orfana e vedova di Genova 2001

La fine degli anni Novanta era stata un brusco risveglio per le categorie tradizionali del ragionamento politico. Non ne era prigioniera solo la Sinistra, stavano cambiando le coordinate del come, “quanto” e perché si governa. I riformisti avevano passato gli anni Novanta a governare l’Occidente in modo largamente maggioritario ma il loro schema d’azione si era avviluppato su se stesso senza pietà. Sul piano cartesiano dell’economia di mercato e della liberaldemocrazia si era compreso che non potesse farsi più soltanto redistribuzione statalista e tuttavia che fosse pericoloso deregolamentare e privatizzare ogni bene e servizio in bianco.

La Destra a lungo non competitiva studiava senza volerlo: le libertà non si cristallizzano in etichette, l’incontro tra culture che non si (ri)conoscono e l’aumento della forbice sociale tra ricchi e poveri seminano lucrabilissima discordia. Anche quel doppio frangiflutti, ricchi contro poveri, diceva sempre di meno: perché la classe media s’avviava a esser classe media disagiata; erosi i canali della sua espansione, prosciugare le aspettative con cui s’era accattivato il suo consenso.

Il movimento no-global cantierizzava questi, e altri aspetti. Il mito scolastico del mondo senza guerre era tradito dai fatti: decine di conflitti, dal cuore d’Europa alle terminazioni d’Africa. Centrali le migrazioni: non vederne la nascita, ne impedisce tutt’oggi una forma umana, serena, pacifica. L’ingresso della finanza nel decisionismo e la questione debitoria nei Paesi in via di sviluppo; il tema dei diritti civili non demandati alla tecnica ma acconciati a spazi di libertà. La assoluta rilevanza del profilo giudiziario, quale strumento di cittadinanza prima che di controllo, repressione, interdetto politico. Il linguaggio dei diritti umani declinato in senso antiautoritario, non da verbo omologante. Un’Italia in cui si scendeva in piazza in centinaia di migliaia e s’affermava dal basso un’agenda spontanea di mobilitazioni e priorità.

Il decennio successivo si incaricò di massacrare Genova: dalla sfiducia ai partiti di potere il sistema della nuova comunicazione ricavò antipolitica; le proposte ecologiche furono e sono scolorite da sciatte petizioni di principio prive di operatività concreta e progettualità di sistema. Il tema degli stili di vita è diventato de facto: far quel che si pare finché lo si riesce a comprare. L’Italia è orfana di Genova, non tanto di quello che portò a Genova ma di quello che da Genova in poi si sarebbe dovuto sviluppare. E con Genova, rispetto a Genova, l’Italia edipica e incestuosa riesce a essere oltre che orfana soprattutto vedova. 

Far dichiarare, anzi, ai principali organismi di tutela internazionale dei diritti umani che le giornate di Genova abbiano costituito la più grave violazione e sospensione di quei diritti e di quelle libertà fondamentali dalla Seconda Guerra Mondiale significa qualcosa di persino più drammatico di un lutto vedovile. Implica che la democrazia sia nella piena e assoluta disponibilità del potere, e non il contrario (l’assunto invece su cui si era fondato il costituzionalismo dello Stato pluralista e sociale di diritto). Quella debacle sul fronte giurisdizionale si sviluppò secondo tre filoni.

Il primo, prettamente ideologico, voleva individuare un cervello strategico unitario e pericoloso nelle agitazioni e nelle rivolte. Non c’era, scopriamo dalle sentenze, e finanche vi fosse stato non siamo certi avrebbe raggiunto e integrato la soglia del reato. Vi fu poi un campo procedimentale di natura risarcitoria sui danneggiamenti di piazza, allenato e alimentato da condanne draconiane e postume. Seguì una tentata ricostruzione giudiziaria degli abusi nel servizio di sicurezza e purtroppo a poco servì, non fosse che addirittura rei acclarati nei loro stessi corpi ufficiali svolgessero poi fulgide carriere che la mattanza genovese avrebbe sconsigliato. La cronaca giudiziaria va letta e va letta bene: va letta rispettosamente bene. È il solo modo di non fermarsi ad essa e poter procedere.

Quei fatti aprirono lo spazio per uno stravolgimento di sensibilità di cui mangiamo ancora ad oggi e chissà per quanto i velenosi frutti: la repressione in assenza di delitto come unico possibile sostituto della giustizia sociale, malinconicamente declassata alla sfera dell’impossibile; la contrapposizione non tra gli interessi, ma tra forme diverse delle stesse povertà (migranti, categorie non coperte dalle tutele assistenziali, categorie espulse dalla protezione legislativa); il passaggio dalla ricerca delle colpe alla caccia dei colpevoli, meglio se a verdetto visibile, immediato, televisivo. Sempre fungibile, sempre opinabile, basta che si abbia il potere di imporre una e una sola lettura. 

Per strano che sia le violenze di Genova (la Diaz, Bolzaneto, i gas, il tradimento delle richieste politiche di manifestanti e simpatizzanti) potevano e avrebbero dovuto essere il “la” di un sentire nuovo, l’inizio di una grande domanda collettiva di trasparenza, coerenza, consapevolezza, partecipazione, critica, capacità di rielaborazione. Quella domanda già esisteva: più la si fosse approfondita, più ci saremmo avvicinati alle risposte. Per normalissimo che sia stato, troppa parte del Paese reale e di chi ne ha gestito umori e bisogni, consensi e paure, proprio da Genova in poi, ha iniziato a correre forsennatamente nella direzione opposta. Alla cieca, verso una catena di muri su cui sbatter tutti. 

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