Arresti a Cosenza, la scalata silenziosa del boss Piromallo
La lunga gavetta criminale di "Renato" fra droga, racket e tante assoluzioni fino al summit di 'ndrangheta che lo inguaia
Non parla mai al cellulare, probabilmente non ne ha mai avuto uno. Le persone le incontra vis a vis, senza mandarle a dire – «Che se no poi le parole vengono modificate» – e così poche battute e via, possibilmente senza mai scendere dallo scooter con cui si muove da una parte all’altra della città. Nel profilo che gli investigatori tracciano di Mario Piromallo alias Renato, 55 anni, uno dei nuovi e presunti boss di Cosenza, c’è posto anche per queste caratteristiche: un tipo abitudinario e riservato, il segreto di un successo conquistato dopo una lunga gavetta criminale.
La prima volta che si sente parlare di lui in termini criminali è all’inizio degli anni Novanta, quando lo arrestano per l’omicidio dell’imprenditore Franco Bruno, e proprio la lunga e successiva carcerazione contribuirà a forgiarne il carattere. «Dopo sei mesi ho smesso di fumare» dirà lui stesso in una rara intercettazione rievocando quegli anni difficili, «avevo calcolato che con i soldi delle sigarette, cinquantamila lire, ci mi facevo la spesa. Così cerco meno soldi alla famiglia». A tutt’oggi, quella è la sua unica condanna.
Quando torna in libertà, ad attenderlo trova la vita che aveva lasciato vent’anni prima. Ma con motivazioni più solide. Diventa l’autista di Francesco Patitucci, che all’epoca studia ancora da boss, e secondo i pentiti prende a occuparsi di droga: l’acquista, la divide tra gli spacciatori, raccoglie i soldi e li consegna al capo. Proprio sugli stupefacenti scivola a febbraio del 2011, quando i carabinieri fanno irruzione in un casolare in Sila alla ricerca dell’allora latitante Ettore Lanzino, ma invece del superboss in fuga trovano una raffineria di cocaina. Poco distante, all’interno di un’auto, c’è lui, Renato, che per quei fatti sarà prima condannato a sei anni e poi assolto. Torna in circolazione con largo anticipo e una medaglia in più sul petto.
La cronaca, in quei giorni, lo vuole dedito anche alle estorsioni. Quella a un imprenditore di Amantea prima (assolto) e la celebre capatina sul cantiere di piazza Bilotti poi (un anno e nove mesi, sentenza ancora di primo grado), cui seguono gli arresti nell’ambito delle operazioni Vulpes e Terminator nelle quali si confronta per la prima volta con le accuse di associazione mafiosa. La collana di assoluzioni ottenute per lui dagli avvocati Luca Acciardi e Giorgia Medaglia scandiscono i suoi anni più convulsi, quelli in cui deve rinunciare, suo malgrado, alla proverbiale riservatezza, ma nel frattempo, attorno a lui, il vecchio mondo sta cambiando.
Lanzino è all’ergastolo; Patitucci entra ed esce dal carcere, e in quel contesto Renatino sembra essere l’uomo giusto al momento giusto. Secondo la Dda, infatti, è lui ad assumere le redini dell’organizzazione assieme a Roberto Porcaro, circostanza che oltre ad accrescerne il potere, gli avrebbe consegnato anche una dimensione finanziaria importante come proprietario occulto di negozi e attività imprenditoriali.
«Reggente del clan Lanzino, lo saluta così Adolfo D’Ambrosio, tra il serio e il faceto, quando se lo ritrova davanti il 16 luglio del 2019, ma lui ridimensiona, ammicca quasi a una boutade degli inquirenti: «Appena uno esce di galera, tre giorni e lo danno subito come reggente». Quel giorno i due, ignari di trovarsi in un magazzino imbottito di microspie, parleranno di droga, estorsioni, assistenza ai carcerati, tensioni all’interno dei gruppi e nuove alleanze criminali. Praticamente tutti i temi della maxi-inchiesta che segna anche il loro coinvolgimento.
«Ringraziando a Dio, a oggi per le parole non ci hanno mai pizzicato» dirà Piromallo in chiusura di conversazione. Più semplicemente, l’ora non era ancora arrivata.